Arrivare in centro Bologna da Ferrara, nei giorni di Arte Fiera, magari in occasione dell’Art City White Night, all’inizio è esaltante ma anche un pochino deprimente. Vernissage e aperitivi, sovrabbondanza di esposizioni temporanee ed estemporanee, cibo cinese come si deve, la gente! Banalmente la gente nelle strade. Ci si sente come i cugini di campagna, non il gruppo, come Renato Pozzetto che si scrolla la terra rimasta appiccicata alle scarpe e… taaaac!
Inaugurazione in spazio total white con ospiti vestiti total black, taaaaac!
Audioinstallazione per ascoltare il rumore di chi lava i piatti pensando al mare, taaaaac!
Franciacorta stappato, sbicchierato, bevuto e digerito, taaaaaac!

Ci si sente bene ma anche un po’male, almeno fino a quando non ci si rende conto che tre quarti delle gallerie imperdibili espongono opere decisamente perdibili (perdiamole!) e che il primo spazio convincente che si incontra nella lunga rincorsa è stato curato… da un ferrarese! Taaaaaac!

Il progetto espositivo si chiama “Il silenzio dopo” ed è stato allestito negli splendidi ambienti interni ed esterni del Collegio Venturoli, in via Centotrecento, che da soli valgono la visita (e bisogna dirlo: il merito più grande di iniziative come queste prescinde il contenuto, sta proprio nell’aprire le porte che di solito restano chiuse). Per raccontarlo occorre fare un passo indietro nel tempo, immaginare il signor Angelo Venturoli – fondatore del Collegio – che decide di lasciare il palazzo agli aspiranti artisti, affinché le stanze seicentesche possano trasformarsi in atelier, luoghi di studio e sperimentazione. I quattro ragazzi che hanno ideato e realizzato “Il silenzio dopo” sono gli attuali ospiti della struttura, selezionati e invitati a usufruirne gratuitamente dopo che generazioni di giovani promesse hanno fatto altrettanto, spesso lasciando in loco dei souvenir, piccoli e grande tracce creative del loro passaggio.

Courtesy Irene Fenara

Lo spazio si può leggere su tre livelli: l’architettura originale convive con i lasciti di chi l’ha frequentata, che a loro volta convivono con il work in progress di chi oggi la utilizza. Un patrimonio complesso e affascinante, che la crew degli attuali occupanti ha voluto annullare, dimenticare, far scomparire. In un contesto, come quello di Arte Fiera e della Art City White Night, in cui chiunque reclama visibilità, in cui tutto deve brillare e splendere per attirare le falene dei critici e dei potenziali investitori, in cui il successo si misura nei decibel prodotti dai visitatori affollati dentro agli stand e alle gallerie, qui si è deciso di navigare in “direzione ostinata e contraria”. Il cortile del Collegio è romantico in senso letterario, illuminato fiocamente, tra il suggestivo e il perturbante. La luce si abbassa mano a mano che si procede verso l’interno. Le statue di marmo sono coperte, si intuisce la loro presenza dallo spuntare bianco di un braccio levato, il giardino si nasconde dietro a un telo. Al primo piano un lampo improvviso acceca chi vuole osservare le opere della gipsoteca. Una porta di oscurità conduce al vecchio refettorio, completamente buio, il quadrato nero di Malevič. Echeggia la voce fredda di una donna che ripete all’infinito le stesse parole: «Gli affreschi del repertorio sono opera di un autore dimenticato».

Il curatore Massimo Marchetti spiega così il senso dell’intervento, e il processo che ha condotto i quattro artisti – Barbara Baroncini, Irene Fenara, Simona Paladino e Davide Trabucco – a questa sintesi: «Abbiamo iniziato a lavorarci da novembre, questo è il terzo anno che il Collegio partecipa ad Art City. Abbiamo innanzitutto cercato di ascoltare il luogo in cui ci trovavamo, mettere in relazione aspetti storici e spaziali, e alla fine abbiamo concluso di concentrarci sull’occlusione, sulla sottrazione. Ad Arte Fiera la città si riempie di cose da fare, da vedere, da sentire, una sovrabbondanza di stimoli che può portare anche alla nausea. Al caos esterno abbiamo voluto contrapporre il silenzio interno, tracciare una linea marcata tra la decorazione classicista del palazzo e il lavoro minimalista sviluppato quotidianamente negli atelier, spostare il baricentro. Per i ragazzi è stato un esperimento, per la prima volta hanno lavorato a un progetto condiviso, si potrebbe chiamare un lavoro a otto mani. Lo svolgimento è stato rigoroso: la censura è stata operata attraverso superfici nere, dal taglio ortogonale, un concept semplicissimo, declinato in diversi modi».

Non si vede la boschereccia, decorazione pittorica tipica dei palazzi bolognesi dell’epoca. Dal piedistallo del Guidatore di Sulky – bronzo ironico e intrigante realizzato da Farpi Vignoli, lascito degli anni Cinquanta –  si proietta verso l’alto una grande ombra generata, un’altra ombra impedisce ai passanti di leggere la targa in marmo dell’edificio. «Abbiamo voluto creare una camera di decompressione, un posto sospeso, dove liberarsi dal peso delle immagini. La cosa curiosa è che poi più le cose sono nascoste, più le vuoi guardare.  Da questo punto di vista la sala affrescata completamente buia è sicuramente la più spiazzante, quella che suscita più domande e stimola maggiormente l’immaginazione».

L’immaginazione, ciò che vive al di là della realtà fisica, la metafisica. Il silenzio. Sarà per caso che uno dei progetti più interessanti incontrati a Bologna sia curato da un ferrarese, ma c’è sicuramente un nesso tra l’aria che si respira nel capoluogo estense e la suggestione attorno alla quale è stata pensata la mostra. La sensazione che si ha nel constatare l’interdipendenza – e qui si torna punto a capo – è un pochino deprimente ma anche esaltante. Possibile che i ferraresi non riescano mai a scrollarsi di dosso la nebbia? Possibile che questa nebbia, vecchia come la terra dalla quale evapora, riesca comunque nei secoli dei secoli amen a contagiare chi la respira e trasformarsi in nutrimento? Ferrara chiude o Ferrara apre? Sicuramente chi ci vive è attraversato da forze contrastanti. La noia, l’accoppiamento incestuoso come dentro un piccolo stagno, l’eterno ritorno dell’uguale privato di qualsiasi riscatto, le reincarnazioni degli Este. E poi la visione, la capacità di inventare proiettando il proprio sguardo oltre le mura, capacità allenata proprio dalla presenza costante e imprescindibile dell’impedimento, lo stupore di ciò che si realizza con apparente facilità, quasi si materializzasse dal niente.

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