Si era davvero troppo ingenui per non chiedersi come mai si facessero battaglie per liberare tutto e tutti, gli analfabeti e i disperati delle favelas, il popolo cileno e quello delle borgate romane, e non ci fosse una parola, nemmeno una giaculatoria, per liberare da quell’insopportabile e devastante peso un ragazzino di sedici anni travolto interiormente dalla propria diversità: potevano liberarsi i popoli e gli stati, si poteva proclamare la rivoluzione permanente, ma sempre purché si fosse al di là dell’oceano. Quanto a noi, nessuna liberazione interiore, nessuna rivoluzione in nome della felicità. E il Medioevo trionfava, sotto la cintura.

(Pier Vittorio Tondelli, «L’Abbandono. Racconti dagli anni Ottanta», Bompiani)

Emilia di notti d’attesa di non so più quale amor mio che non muore. Forse non sei tu, Ferrara distopica con gli onorevoli che vanno e vengono, vanno e vengono e presenziano alle aperture straordinarie, agli eventi che fanno rete, alle inaugurazioni delle nuove filiali di banca. L’unico baluardo dove tutti vanno, tutti si ritrovano. Il questore, il politico, tutti noi della stampa. Noi che aspettiamo, aspettiamo senza nemmeno andare a fumare.
Una stampa dove meglio proponi più convinto sei di farne parte, dove la creatività nuoce gravemente alla salute, tua e di chi ti sta intorno. Dove essere felici, che forse è anche capirsi ed essere capiti, sembra sempre più il sogno che avremo voluto avere. Un condizionale che pesa, giorno dopo giorno, nel cuore e nelle ossa. Ossa atrofizzate, che non riescono che uscire e prendersi un caffè, ‘un altro caffè però lungo per favore’, come è dolce l’agonia. Scottarsi. Pagare e non avere mai il resto.

L’altro giorno, a Milano, ho incontrato un editore, un amico. Era da un po’ che non ci si vedeva. Ci siamo trovati in un posto dove non ero stata mai, per andare sopra il tetto della Rinascente. «Lo sai perché si chiama così?» mi fa lui, lungo la prima rampa di scale mobili. «No, Mario, raccontami». «È stato D’Annunzio, dopo la ricostruzione per via dell’incendio che l’aveva distrutta. Serviva un nome che fosse evocativo, per il primo centro di negozi in stile americano, con gli abiti preconfezionati. L’azienda era un luogo di ritrovo per molti artisti, sai? La Ri-na-scen-te, l’aveva chiamata», si ripete quasi tra sé Mario, come fosse uno di quei pensieri lasciati uscire dalla bocca, la mattina presto.

Dal cumulo di scale mobili infinite, dove ci si potrebbe raccontare la vita degli ultimi mesi e poi scendere nel gorgo muti, saliamo invece fino all’ultimo piano. Ci sono cameriere svogliate, con un sorriso a metà. Il tè al limone e zenzero è finito, rimangono gli altri sempre a otto euro. Le cameriere svogliate si annoiano, si vede che loro il duomo di Milano sono fin stanche di vederlo. E allora hai ragione tu, che sei stufo della gente che si lamenta della città in cui vive. «Nessuno ti frena, potresti andartene quando vuoi ma non pensare che là fuori sia meglio».

Parliamo di traslochi. Ne sta facendo uno proprio ora. Lui, insieme al resto del nuovo gruppo editoriale capitanato da Elisabetta Sgarbi, sta aspettando di entrare nella nuova sede, di cui mi indica la futura posizione col dito, puntato verso il tramonto milanese. È questione di poco tempo, tutto è ormai pronto per la Nave di Teseo. Gli parlo anche del mio, di trasloco. «Mario, alla fine non sono andata nella casa che mi ricordava un racconto di Raymond Carver, sai?» gli faccio sorseggiando il tè. C’è troppa poca acqua nella teiera. Milano non dà mai nulla per nulla. Piccoli omini si intravedono tra i pinnacoli del lato destro del duomo. Omini che sembrano formichine con maglioni blu, verdi, beige. Sono tutti affaccendati. Cerco il loro senso vicino all’orizzonte, che è un viola azzurro grigio. «A volte si vedono le montagne», mi dice intanto l’editore, ma «nonostante il caldo non siamo così fortunati oggi pomeriggio». Gli racconto delle ultime cose che ho portato via, in bici. Della sensazione che si prova in un trasloco lento quanto un’agonia. Un’agonia spesso essenziale, per alcuni di noi, per entrare nel vivo delle storie. Ferrara permette anche questo, i traslochi in bici intendo. Mi dice che sta inscatolando i libri. Non tutti, solo alcuni. Che a una certa età si elimina il superfluo, e lo si fa anche con più leggerezza.

Avere trent’anni, si legge in questa settimana rosa di Pagina99. Ce lo chiediamo tutti cosa significhi. Perché non si prendano le piazze, mentre si prendono per il culo colleghi, amici, amanti. Perché siamo tutti così troppo invischiati per vedere una collettività che ha perso, che non si ricrea. Che viene giorno dopo giorno mangiata dalla tristezza lacerante fatta di singoli esseri tra le guglie, affaccendati e tristi, soli e tristi, annoiati e tristi. C’è sempre più beige. Constatare che non sei stato no nel posto giusto al momento giusto. Che le cose non vanno sempre come vorresti. Che della creatività si può anche fare a meno se c’è servilismo, l’esserci per esserci. Il grazie prego cortesia.

«Mario, che libri si porta dietro un editore quando fa un trasloco? Quali hai scelto?». «Non è mica facile risponderti. Tanti. Tanti però non li porterò, non c’è abbastanza spazio per tutti nella nuova sede. Ma ciò non mi rattrista». Come si sceglie un libro e non un altro non me lo dici, alla fine. Ma si intuisce che certi rimangono più nel cuore, funziona così. Nel nostro rapporto coi libri sembra esserci ancora quell’affinità elettiva che non so mica se si trovi nel lavoro che scegliamo, nei collaboratori che ci vengono messi vicini, nelle storie d’amore. Anche se dovrebbe essere così che funziona. Perché non siamo liberi di scegliere la vita come Mario sceglie la sua scatola di libri da portare?

«Dai, sparamene tre, tre soli, tipo gli ultimi che hai inscatolato». Strizzo quel che rimane della bustina del tè, è già finito. «Allora, tra quelli che mi porterò alla Nave ci sono sicuramente alcuni che editammo con la Bompiani. I Saggi di Michel de Montaigne, Sciascia, Tondelli. Poi anche delle enciclopedie, anche se chi le consulta più, ora, le enciclopedie?». Tondelli. Inizio a fissare il duomo. Perché un signore elegante di settanta e passa anni come Mario dovrebbe scegliere, tra tutti i libri nati e cresciuti e morti e vissuti, quelli di Pier Vittorio Tondelli? Sciascia, Michel de Montaigne, Tondelli. La mia Emilia. penso. E un po’ mi viene da piangere e da incazzarmi. Il mio modo di pensare è nato da quell’insieme di parole che ora sono su uno scatolone a Milano, pronte per una nuova casa. Nei bar, alla radio, sui giornali non si fa che parlare di Family Day.

Uno scrittore, un omosessuale, uno morto male. In ‘Camere separate’, pubblicato da Bompiani, Pier Vittorio Tondelli scriveva: «Lui si sente in pace solo nella sua solitudine, accudito dagli amici più cari. Quello che sta facendo è il tentativo di formarsi una famiglia, una strana famiglia senza donne né figli, ma i cui vincoli tra i componenti sono altrettanto forti e consapevoli: Rodolfo, Eugenio, Michael sono oggi la sua famiglia». E poi: «Solo nel futuro, solo fra molti anni, forse qualcosa cambierà. Nasceranno persone che tenteranno in altri modi di mettere in contatto i mondi diversi nei quali ognuno continua a vivere. Nascerà finalmente qualcuno per cui la memoria dell’entità “Leo-e-Thomas” verrà accettata e custodita come un valore da cui trarre vita e speranza. Solo in futuro. Forse soltanto tra centinaia di anni». Credo che Mario sia stato uno dei primi a leggere queste parole quando lavorava alla Bompiani, sarebbe da chiederglielo. Perché Mario le hai volute salvare, nel tuo scatolone? Ma il tempo a nostra disposizione è finito.

Come si sceglie un libro, un libro che sia quello giusto? Io e Mario ci salutiamo, scendiamo migliaia di scale mobili infinite. I saldi ci rincorrono piano dopo piano. Tutto è scintillante, colorato e profumato nella Rinascente che un tempo era un luogo dove si ritrovavano gli artisti e ora si ritrovano famiglie annoiate, con i mariti che vanno fuori a fumare, sperando – almeno un poco lo sperano – che le mogli esplodano nei camerini. “Cara, io intanto ti aspetto fuori”. Aspettare. Aspettare. Guardo Mario allontanarsi per corso Vittorio Emanuele II, intanto Ferrara risponde con un messaggio: «La tua battaglia mi è davanti agli occhi tutti i giorni. E anche il tuo coraggio».

1 Commento

  1. Chiara scrive:

    … non solo coraggio, soprattutto incoscienza.
    Gran bell’articolo.

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