di Veronica Capucci

Sembra incredibile che la Sala Boldini, un cinema dove si possono vedere film “che fanno solo là”, unica sala cinematografica d’essai, in origine fosse un circolo provinciale di dopolavoro fascista. Eppure è proprio così. In seguito all’intervento dell’ingegnere Carlo Savonuzzi tutta la parte di via Boldini, Previati e De Pisis, vide l’edificazione dell’attuale Conservatorio “Frescobaldi”, le scuole elementari “Alda Costa”, il Museo di storia naturale e la Sala Boldini, costruita dal 1935 al 1939 nella parte più nord occidentale della sala degenza dell’ospedale Sant’Anna, rimasto lì fino al 1927. Questa zona della città è anche denominata addizione novecentista.

Per gentile concessione di Francesco Scafuri

Come nacque dunque la programmazione della Sala Boldini? Cosa rese questo spazio un unicum nel panorama delle sale cinematografiche cittadine e cosa ne fa oggi un luogo così poetico, con la sua aria vintage e nostalgica? Per scoprirlo, siamo andati alla ricerca di aneddoti e di storie di chi ha vissuto quei gloriosi anni nei quali si è reso il cinema Boldini un luogo che non poteva essere diverso da come è oggi e che per fortuna continua a rimanere un punto di riferimento per i cinefili ferraresi.

Il cinema d’essai viene proposto fino agli anni ’70 alla Sala Estense, le rassegne sono curate da Gabriele Caveduri. In seguito, il Circolo Louise Brooks, dal nome di un’affascinante attrice con caratteristiche di modernità, inizia a fare le prime rassegne alla Sala Boldini. Tra i fondatori del Circolo persone che ancora oggi animano la vita culturale della città, o se ne sono andati in cerca di maggiori prospettive: Massimo Maisto, Alberto Ronchi, Filippo Vendemmiati, Giovanni Lenzerini, solo per citarne alcuni. Tutti accomunati dalla passione per il cinema.

In un bar del centro storico, Alberto Ronchi mi dà appuntamento per raccontare la nascita di questo pionieristico gruppo di giovani intellettuali, che andava a documentarsi all’ufficio cinema, dove un solerte Remo Pagliarini metteva a disposizione i libri per la documentazione. Ogni rassegna infatti veniva curata e documentata nei minimi dettagli. La prima venne dedicata all’attrice Nastassja Kinski. In quegli anni pionieristici non sono mancati episodi buffi, che andavano al di là della volontà e dell’impegno di quei giovani cinefili. Per esempio, le pellicole dei film non sempre venivano revisionate dagli addetti ai lavori, e capitò, durante la proiezione del film di Éric Rohmer, La Marchesa von…, che la pellicola si interruppe proprio sul finale, lasciando il pubblico, che affollava la sala, ammutolito. La rassegna continuò comunque con successo, superando questo piccolo incidente di percorso. Fra i tanti momenti importanti, Ronchi ricorda la prima personale italiana di Giuseppe Bertolucci, fratello di Bernardo, che partecipò in prima persona. Quella presenza fu un salto di qualità per il destino della sala, e Bertolucci si rivelò essere una persona meravigliosa. Non fu l’unico.

Venne anche il regista Silvio Soldini, all’epoca non famoso come oggi, o Nanni Moretti, di cui Ronchi conserva un bel ricordo, nonostante le tante voci che lo dipingono come persona antipatica. “All’inizio era un po’ burbero, ma si capiva che era simpatico, veniva a cena con noi, era molto disponibile. La proiezione di Caro diario andò bene, venne tantissima gente ad assistere. Il film rimase per due-tre settimane, fu quasi un record, e Moretti ci chiamava per sapere come andava incitandoci a continuare a proiettarlo. Così andammo avanti a lungo… ovviamente negli ultimi giorni non c’era quasi più nessuno in sala, perché Caro diario era già stato visto da tutti”.

Un altro passo importante, che permise al Circolo di fare un salto di qualità, fu la decisione di scrivere al Festival di Berlino. “Fu alla fine degli anni ’80, tra il 1986 e 1987, che desiderosi di ampliare le nostre prospettive, scrivemmo – racconta Ronchi – e la cosa interessante è che il Festival ci rispose e ci accreditò. Come Circolo Louise Brooks andammo al Festival per alcuni anni, un anno in anticipo sulla nota critica Irene Bignardi”. Ma gli anni passano e le rassegne continuano, come quella dedicata a Tinto Brass, alla quale partecipò il regista stesso, poco dopo aver terminato di girare Miranda. Il suo cinema è stato dimenticato, ma i suoi “erano film interessanti dal punto di vista del linguaggio cinematografico”, spiega Ronchi.

Altro passo in avanti negli anni ’90: il Comune si apre all’associazionismo e dà in gestione al Circolo la Sala Boldini, circolo che a tutt’oggi continua la programmazione. All’inizio si proiettano rassegne, dal venerdì al lunedì anche prime visioni. Le rassegne rimangono fino all’inizio degli anni 2000, quando Ronchi diventa Assessore e lascia l’incarico nel Circolo. L’idea fu di Maria Grazia Caravelli, Assessore alla Cultura in quegli anni nonché madre di uno dei soci Massimo Maisto. “Capì che avevamo delle capacità e permise così alla sala di assumere quel ruolo di centro culturale che ha oggi” ricorda Ronchi. Tra le proiezioni di maggior successo quella de La montagna sacra con Alejandro Jodorowsky. “La sala era stracolma, il pubblico seduto in terra e lui si dimostrò una persona straordinaria”.

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Courtesy Massimo Maisto

Uno degli aspetti più curiosi della gestione della sala era sicuramente il fatto che tutto, dalla stampa delle cartoline, allo loro distribuzione, all’affissione delle locandine, era artigianale. Tutto era fatto a mano, e ciascuno a turno faceva il cassiere della sala. Anche un insospettabile Massimo Maisto, attuale Assessore alla Cultura di Ferrara, ha fatto il cassiere, definendolo oggi “uno dei lavori più belli al mondo”. All’interno del suo ufficio in Comune, Maisto rievoca con entusiasmo e una punta di nostalgia gli anni di grande fervore culturale che hanno consentito al Circolo Louise Brooks di affermarsi e di fare della Sala Boldini un importante “centro culturale, dove si cerca di far crescere lo spettatore”.

Ci tiene il vicesindaco a sottolineare questo aspetto: la sala Boldini non è solo un cinema d’essai, ma un centro culturale dove la programmazione attuale ha radici negli anni ’90. Maisto ripercorre gli anni più belli della Sala, quelli delle rassegne, e in una conversazione di neanche un’ora, scorrono davanti agli occhi i nomi di celebri registi e attori che hanno regalato la loro presenza allo stesso cinema: Nanni Moretti, Marco Tullio Giordana, Wim Wenders, Luigi Lo Cascio. Di quest’ultimo, che impersonava Peppino Impastato nel film I cento passi di Marco Tullio Giordana, ricorda il grande applauso, l’ovazione che lo accolse al momento in cui entrò in sala. Non era ancora famoso, ma per una sorta di trasfigurazione che solo il cinema sa regalare, il pubblico, vedendo il giovane attore, lo aveva identificato con il protagonista del film. Anche il grande regista ferrarese Florestano Vancini fu ospite della sala, alcuni mesi prima di morire, in occasione della proiezione della versione restaurata del suo capolavoro La lunga notte del ’43. Il regista chiese che venisse proiettato anche Le stagioni del nostro amore, molto criticato alla sua uscita per via di uno stile troppo simile a quello di Antonioni. Tra le rassegne più interessanti Maisto ricorda quelle dedicate ai fratelli Aki e Mika Kaurismäki e il cinema finlandese, Oliver Assayas, che il vicesindaco, insieme a Roberto Roversi, portò a Ferrara dal Festival del Cinema di Bergamo a bordo della sua Fiesta, e Atom Egoyan.

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Courtesy Massimo Maisto

Ma il cinema non è fatto solo di grandi registi: chi lo anima, nel senso letterale del termine, è il suo pubblico. Ora il pubblico che va al Boldini oggettivamente non è giovane, nel senso che mancano i ventenni. A questo Maisto pensa di avere una risposta: probabilmente quei grandi registi citati hanno dato il meglio in quegli anni e ora non producono più grandi capolavori. Manca una sorta di ricambio generazionale tra i grandi cineasti. La sala tuttavia è frequentata da uno zoccolo duro d’appassionati di film di qualità, film che puoi vedere solo al Boldini.

Tutto contribuisce a rendere unico questo luogo: il pubblico, i cassieri e anche l’arredamento. Quelle poltrone dai colori variegati, che danno un tocco d’originalità, non furono una scelta. Ad un certo punto, era chiara la necessità di sostituire le vecchie sedie di legno imbottite con altre più comode. L’occasione venne agli inizi degli anni 2000, quando il cinema fu chiuso temporaneamente per alcuni interventi di manutenzione sul tetto e le proiezioni vennero spostate alla Sala Estense. Mancavano però i fondi. Si venne a sapere che una sala stava per chiudere e per l’occasione svendeva le poltrone. Di colori diversi, però: 250 provenivano da una sala e 250 da un’altra. In seguito vennero sistemate in maniera “fai da te” da Paolo Vettorello. Adesso quelle poltrone fanno parte della poesia dello spazio della Sala Boldini.

Foto di Giacomo Brini

Per terminare il nostro viaggio nella storia e nell’anima di questo centro culturale unico nella città di Ferrara, non poteva mancare il racconto di Roberto Roversi, che da nove anni cura la programmazione filmica. Roberto – detto “Bobo” dagli amici e da tutti – è un vero e proprio cinefilo: guarda solo film in lingua originale con i sottotitoli, perché secondo lui il doppiaggio snatura il film. Roversi sta portando avanti una programmazione di qualità, e “dopo il periodo pionieristico di Alberto Ronchi e di assestamento di Massimo Maisto, ora si prosegue in un contesto sociale mutato radicalmente. È cambiato il modo in cui il pubblico vede i film, scaricandoli principalmente dal web o da varie piattaforme.” Anche in virtù di questo mutamento, il pubblico del Boldini in questi anni è cambiato: non sono giovanissimi, ma giovani adulti, adulti o persone anziane che amano il cinema d’essai. I giovani, secondo Roversi, frequentano il cinema multiplex.

Tuttavia si possono riscontrare anche elementi positivi, che denotano un interesse da parte delle giovani generazioni verso una programmazione, per così dire, alternativa. “Ho notato grande affluenza di studenti universitari durante le rassegne e quando proiettiamo film in lingua originale con sottotitoli. In questo caso sono sia studenti stranieri, che desiderano assistere ad un film nella loro lingua, che persone che vogliono migliorare la conoscenza della lingua.” spiega Roversi. “Un cinefilo ama vedere i film in lingua straniera, perché il doppiaggio crea spesso un effetto straniante, soprattutto se il film è asiatico o africano. Questa usanza del doppiaggio è tipica del Sud Europa, mentre nel Nord tutti i film stranieri hanno i sottotitoli. In generale oggi c’è meno interesse verso il cinema sperimentale, una minor curiosità intellettuale verso i film di frontiera”, racconta.

Grande interesse riscuotono invece i documentari di Internazionale, soprattutto nei giovani, e il documentario in genere, che in questi anni ha acquisito un suo spazio, vincendo premi in vari Festival internazionali. Al di là di tutto, l’esperienza del cinema, secondo Roberto, è prima di tutto un investimento emotivo. “Significa vestirsi, uscire, prendere la bici o l’auto, implica uno sforzo. Ma vedere un film con qualcuno, l’emozione che ti lascia, sono ricordi indimenticabili.” La sfida del futuro e del medio periodo sarà tra la passività del divano e la volontà di socializzare che proviene solo dal cinema. Roberto conclude questa nostra piacevole conversazione citando una frase del regista e critico Jean Luc Godard:

La televisione crea l’oblio, il cinema ha sempre creato dei ricordi.

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