L’unica certezza è il dubbio. Nel mondo di Dylan Dog non c’è spazio per i dogmi, ma per un lavoro d’indagine sui mostri che abitano nel profondo dell’animo umano. Il fumetto, frutto dell’inventiva di Tiziano Sclavi, approda in edicola nel lontano 1986. Se le sue sembianze ricalcano quelle dell’attore Rupert Everett, i canoni del suo personaggio si discostano da quelli tradizionali dell’eroe. A quasi trent’anni dalla sua origine, l’indagatore dell’incubo continua a investigare sul concetto di “altro” che si cela in ciascuno di noi. Al timone del nuovo ciclo di Dylan Dog, oggi c’è il fumettista Roberto Recchioni. Un nuovo corso, inaugurato nell’ottobre del 2014 dai disegni di Nicola Mari, al quale si deve anche l’albo in edicola nello scorso mese di settembre, dal titolo ‘La mano sbagliata’, scritto da Barbara Baraldi. Il fumettista ferrarese sarà anche presente all’ultima edizione del ‘Lucca Comics & Games’, in programma dal 29 ottobre all’1 novembre. Siamo tornati a intervistarlo, dopo l’ultima volta che ci siamo incontrati. E le sue risposte arricchiscono il fumetto di nuove sfumature.

Drawing Dylan Dog from Listone Mag on Vimeo.

Che rapporto hai con Dylan Dog, il personaggio che ti accompagna dal 1996?
«In realtà, da un punto di vista professionale, il mio rapporto con Dylan Dog è a partire dal 1995, data in cui iniziai a disegnare le prime tavole di “Phoenix”, su sceneggiatura di Tiziano Sclavi, e mio esordio sulla testata. Esiste però un rapporto antecedente, che è quello che intrattengo con Dylan in veste di lettore. Incontrai Dylan con il numero tre. Fui immediatamente colpito dalla splendida copertina del grande Claudio Villa che, nel suo impianto classico – e probabilmente proprio per questo – mi parve diversa, straniante, rispetto a tutti gli altri fumetti che campeggiavano in edicola in quel periodo. Questa sensazione di alterità venne confermata dalle storie intimamente trasversali di Tiziano Sclavi e dal modo in cui i vari disegnatori le interpretavano: ero entrato in un altro mondo. Dylan, da subito, si presentò come alternativa al fumetto popolare, quindi a se stesso, e soprattutto a quelle pubblicazioni che volevano essere “diverse”, ma che riuscivano solo a trasmettermi un imbarazzante senso di “banalizzazione della complessità”; a riprova che il voler essere alternativi, troppo spesso, condanna al conformismo di genere. Dylan invece non ha mai voluto essere alternativo, lo è nella sua essenza. La lettura di Dylan, l’affondo nel suo mondo, appagò da subito la mia innata propensione per la “diversità”, per l’inatteso: non avevo mai letto un fumetto così diverso e in grado di rimodellare tutti i parametri narrativi ed estetici dell’arte dei comics, e non solo: un’autentica rivoluzione. Il mio rapporto con Dylan è sostanzialmente un legame d’amore con la propria anima rivoluzionaria».

Da cosa è caratterizzato il suo universo?
«Dalle ombre che ciascuno di noi, non volendo riconoscere come proprio costitutivo, tende inconsciamente a proiettare al di fuori di sé, in quella dimensione che associamo al male. Dylan invece entra in relazione con queste ombre, rimettendoci in contatto con il nostro rimosso, con la parte che più temiamo di noi stessi e che più ci affascina».

È più complesso da disegnare nella sua essenza di contenuto o di contenitore?
«Dylan è esclusivamente contenuto. La mia difficoltà di disegnatore consiste nel trovare la forma adeguata ai contenuti che animano questo complesso personaggio e il proprio universo. Dylan, in un qualche modo, mette in discussione la teoria secondo cui la sostanza è nulla senza la sua forma. Anche per questo disegnare Dylan Dog è difficilissimo».

Come si svolge il dialogo fra mondo reale e mondo immaginario?
«Dylan riesce a colmare la distanza che intercorre tra mondo reale e mondo immaginario, dimostrando l’intima convivenza tra due dimensioni dello stesso. La realtà, in fondo, si potrebbe definirla come una sorta di grande fantasia condivisa, che in quanto condivisa, assumiamo e percepiamo come reale».

Il gioco di rimandi letterari, cinematografici e musicali, spesso disseminati nella narrazione di Dylan Dog, quanto contribuisce a far dialogare i due mondi?
«Ogni linguaggio è la sommatoria di più linguaggi, in cui elementi di realtà possono – in una logica reversibile – entrare in relazione con elementi immaginifici. Questo rapporto dialettico in Dylan è stato rielaborato e messo in luce grazie al raffinatissimo gioco di rimandi e citazioni che solo il genio di Tiziano Sclavi poteva ideare e svolgere, lasciandolo in eredità agli autori impegnati a narrare le storie di Dylan, e aprendo porte che attendevano di essere spalancate nella mente dei lettori. Dylan, attraverso la sua capacità del tutto particolare, di far dialogare Kafka con Ridley Scott, contribuisce a rimodellare il nostro immaginario collettivo e, con esso, la nostra percezione della realtà».

Perché Dylan esercita un fascino trasversale su generazioni diverse fra loro?
«Dylan come ogni evento rivoluzionario è un classico, intendendo per classico tutto ciò la cui lettura è inesauribile, in grado di mantenere un rapporto dialettico con il proprio presente e, insieme, con il proprio futuro, quindi con le diverse generazioni».

Pensi che in futuro il supporto cartaceo del fumetto sia destinato a essere superato?
«La mia sensazione è che in un futuro prossimo i vari supporti di fruizione dei comics – e non solo – , digitale, cartaceo – compresi quelli che ora non siamo in grado di immaginare – , troveranno tutti pari dignità e diritto di cittadinanza. Ora siamo ancora nella fase di entusiasmo per il nuovo, per la novità tecnologica, in questo differendo il futuro».

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