Partiamo alle 8, dal centro di una Ferrara ancora mezza addormentata. Direzione Nord Est. In macchina commentiamo la cronaca degli ultimi giorni e ci raccontiamo a vicenda come e perché siamo già stati a Gorizia. Lola ricorda una città grigia, ma forse era solo colpa del tempo. Che poi ad attraversare corso Giovecca in questi giorni umidi non è che si raccolgano impressioni migliori. Carlo lo raccogliamo vicino alla stazione, Chiara è già stretta al centro del sedile posteriore. Stiamo andando in gita per soddisfare una curiosità e raccontarvi una storia, o meglio: per raccontarvi come si resuscita una storia.

Siete andati a vedere la mostra sui primi anni di attività del Centro Video Arte, chiusa ieri? A Palazzo Diamanti avrete senz’altro trovato un pezzo di identità cittadina dimenticata: il racconto di quando – nel bel mezzo degli anni Settanta – il capoluogo estense intrecciò il proprio destino con quello delle metropoli più audaci, scuotendosi dalla nebbia e dal torpore per trasformarsi in motore propulsore di innovazione e avanguardia. Nel 1973, grazie alla visione folle e allo stesso tempo lungimirante di Lola Bonora e Carlo Ansaloni, inaugurò nelle stesse sale che oggi ospitano la retrospettiva un particolarissimo laboratorio dedicato alla produzione di videoarte, che portò a lavorare all’ombra del Castello talenti all’epoca ancora sconosciuti, che sostenne e contribuì a far crescere e far conoscere al mondo nomi come Fabrizio Plessi, Christina Kubish, Angela Ricci Lucchi, Yervant Gianikian.

Il centro lavorò alacremente fino al 1994, anno in cui lo spazio venne chiuso e le registrazioni finirono più o meno nel dimenticatoio. Lo scopo della nostra gita è capire come sia stato possibile tirarle fuori da lì. Conoscere chi ha recuperato i nastri mangiati dal tempo e che tipo di lavoro si sta conducendo per salvare l’intero archivio.

“Ho sempre pensato: vedrai che ce la farò, ma non sapevo come. Tutti mi facevano promesse ma poi non si  faceva niente”. Lola chiacchiera, legge il giornale. Mentre attraversiamo la pianura padana ricorda il lungo percorso intrapreso per arrivare finalmente a vedere sano e salvo il prezioso materiale realizzato del centro: “la Fondazione Pianori fortunatamente ha capito l’importanza di questa operazione, il suo finanziamento è stato fondamentale, assieme a quello del Comune. Per realizzarla ci siamo rivolti al laboratorio di Gorizia, distaccamento dell’università di Udine. Avevano già restaurato opere veramente importanti, avevano lavorato per la Biennale di Venezia. Sapevamo di poterci fidare”.

Arriviamo a Gorizia e nell’aria si sente odore di bosco. Ha appena piovuto ma il cielo già si apre all’azzurro. La nostra destinazione si chiama “La camera ottica”: è un laboratorio che assomiglia all’astronave di Star Trek. Manopole e schermi giganti, bottoni a molla. L’ingombrante tastiera di una vecchia moviola televisiva sembra pronta a lanciarci su Marte. Le pareti sono dipinte di grigio scuro, l’equipe è una civetta abituata a lavorare al buio.

Ci accoglie Cosetta Saba, docente di cinema, curatrice assieme a Chiara Vorrasi della mostra ai Diamanti. Il direttore del laboratorio – Gianandrea Sasso – ci accompagna di stanza in stanza e ci racconta come hanno recuperato i nastri ferraresi.

Foto di Eugenio Ciccone

La prima cosa che impariamo è questa: un conto è lavorare sulle pellicole cinematografiche, che sempre mostrano in controluce il loro contenuto, un conto è lavorare sui nastri magnetici, misteriosissimi poichè l’immagine che custodiscono non si svela all’occhio umano ma solo alla macchina che l’ha concepita. In Europa sono diversi i centri che lavorano su pellicola, gli specializzati in nastro sono pochi, pochissimi. Stiamo visitando un’eccellenza.

“Ci siamo concentrati sul funzionamento degli apparecchi più obsoleti”, specifica Gianandrea, raccontandoci delle difficoltà che si incontrano nel dover reperire dispositivi prodotti cinquant’anni fa, quando ancora non c’era uno standard ben definito e i supporti erano molteplici. “Spesso per ottenere un esemplare funzionante bisogna farne a pezzi diversi”. Segue spiegazione dettagliata delle varie operazioni necessarie per stabilizzare i nastri, ovvero a impedire che continuino a degradare, e per digitalizzare il loro contenuto. Dal forno per l’essiccazione, fondamentale per poter poi rimuovere muffe e impurità,  al Time Base Corrector, l’apparecchio che regolarizza il ritmo del segnale,  sembra quasi di assistere a una lezione di ingegneria. La visita si snoda tra sale arredate con macchinari enormi e dal funzionamento poco chiaro, che fanno bip e accendono lucine su una plancia piena di etichette. Macchine costosissime all’epoca, ingombranti e cadute in disuso oggi, ma in questo luogo ancora preziose per recuperare opere d’arte pubbliche e private spesso ridotte in condizioni davvero disastrose. Gianandrea fa notare che alcuni dei nastri arrivati da Ferrara assomigliavano a formaggio di fossa. Viene in mente la pagina Wikipedia dedicata al Centro Video Arte che qualche anno fa il vicesindaco Massimo Maisto volle smentire, perché la descrizione si concludeva nell’oscurità totale: “del suo patrimonio non si sa più nulla, come del suo stato di conservazione e fruibilità”.

Eccolo qua il patrimonio: una catasta di cartoni imballati e pronti per essere spediti a Ferrara. Più di quattrocento nastri già messi al sicuro, in attesa del restauro.

Il lavoro che resta da fare si allontana dalla chimica dei solventi e dalla fisica dei forni, incrocia filologia e archeologia industriale. “Non possiamo correggere le imperfezioni in modo automatico, come faremmo con un film. Dobbiamo prima accordarci con gli artisti e con i produttori, ragionare su quando e come è nata una determinata registrazione, e alla fine stabilire un modus operandi per intervenire. Sarebbe sbagliato cancellare tutte le interferenze: alcune possono derivare dalla cattiva conservazione del segnale ma altre costituiscono parte integrante dell’opera, di cui non si può avere un’esperienza veritiera se non si rispetta il tempo e lo strumento da cui è nata”.

Lola Bonora e Carlo Ansaloni sono d’accordo: “questi materiali andrebbero visti esclusivamente tramite vecchi televisori a tubo catodico”. La difficoltà di recuperare le apparecchiature adatte torna come un mantra in tutti i discorsi.

Immagina di avere fondi infiniti. Come dovrebbe continuare questa storia?

Chiara risponde mentre usciamo dal laboratorio e ci incamminiamo verso la piazza: “Vorrei che a Ferrara si allestisse una videoteca simile a quella organizzata dalla Gam a Torino, con una sala dove chiunque può consultare i filmati e i vari materiali che compongono l’archivio del centro – fotografie, cataloghi, lettere – e una sala dove proporre i percorsi espositivi. Vorrei un sito con diversi livelli di accesso, perché l’archivio dovrebbe essere il più possibile aperto. Vorrei che fossero ricostruite alcune video sculture, magari anche reinterpretate alcune performance”.

Noi per il momento decidiamo di accontentarci e ci accomodiamo “da Gianni”. La nostra lista dei desideri a ora di pranzo non arriva oltre una cotoletta dalle dimensioni giganti, ripiena di prosciutto e formaggio, che gli autoctoni chiamano lubjanska.

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