«Alfredo! Bravo! Non badare alla squalifica, per me hai vinto lo stesso: eri chiaramente il più veloce di tutti!». L’uomo che esulta è Primo Binda; suo fratello minore, Alfredo, ha appena ottenuto la prima vittoria della sua carriera da ciclista in una gara amatoriale corsa sui colli attorno a Nizza, ma è stato squalificato per non aver risposto al secondo appello che precede la partenza. Primo ha ragione: lui suo fratello lo conosce bene, insieme pedalano tutte le domeniche lungo le strade della Costa Azzurra e da un pezzo ha intuito il talento di Alfredo, soprattutto quando, in sella a quella bicicletta comprata con i primi risparmi da operaio stuccatore, lo vede attaccare in salita il massiccio dell’Esterel. Ma nemmeno lui immagina che quel giovanotto neanche ventenne originario di Cittiglio, paesino in provincia di Varese, emigrato nell’immediato primo dopoguerra a Nizza a cercar fortuna, diventerà il grande Alfredo Binda, vincitore, tra il 1925 e il 1933, di cinque Giri d’Italia (record eguagliato solo da Fausto Coppi e Eddy Merckx), tre Campionati del Mondo su strada, quattro Giri di Lombardia, quattro Campionati italiani e due Milano- Sanremo.

La storia di Binda è quella del periodo d’oro del ciclismo italiano tra le due guerre e ha un denominatore comune a quelle degli altri grandi ciclisti dell’epoca: la fuga, prima ancora che dagli avversari, dalla fame e la bicicletta non solo come passione, ma come mezzo per affrancarsi dalla miseria. Storie che riaffiorano, come pescate da un vecchio baule dimenticato in soffitta, dal racconto di Edoardo Rosso nel suo libro “Binda l’invincibile”, Italica Edizioni, impreziosito dalle illustrazioni di Serena Tommasini Degna, che sarà presentato venerdì 16 ottobre alla libreria Ibs di Ferrara.

Basterebbe anche solo guardare le facce, scavate dalla fatica, dei campioni del tempo, per capire che quello era un ciclismo da pionieri, in cui le gare prendevano il via all’alba perché correndo su strade bianche, con la polvere che ti brucia gli occhi e ti entra nei polmoni, si sapeva quando si partiva, ma non quando si arrivava; in cui i ciclisti erano trattati come vittime da sacrificare sull’altare di uno spettacolo massacrante, che imponeva ai suoi protagonisti tappe su distanze impossibili che, a volte, superavano i quattrocento chilometri; e dove a farla da padroni erano personaggi come Henri Desgrange, patròn del Tour de France, soprannominato “aguzzino di forzati” per le condizioni ai limiti della sopportabilità in cui costringeva gli atleti a gareggiare. Ma, forse, così ci appare se guardiamo a quel tempo con gli occhi di oggi; allora la fatica era il pane quotidiano ed è proprio per questo, per il suo rispecchiare la sofferenza di tutti i giorni, che il ciclismo era uno sport così seguito in Italia e lo è stato fino all’immediato secondo dopo guerra, tanto da fare concorrenza, quanto a popolarità, al calcio.

Nel suo libro, Edoardo Rosso ripercorre la vicenda umana e sportiva di Alfredo Binda, ciclista talmente forte che nel 1930 gli organizzatori del Giro d’Italia lo pagarono ventiduemila e cinquecento lire dell’epoca (il premio che sarebbe spettato al vincitore) perché non prendesse parte alla corsa, rischiando di rovinare lo spettacolo con una vittoria scontata. Il racconto si apre con la storica prima edizione dei Campionati Mondiali di ciclismo, disputati il 27 luglio del 1927 tra le foreste del lunghissimo circuito del Nurburgring (lo stesso che, cinquant’anni dopo, fu teatro del terribile incidente di Niki Lauda con la Ferrari al Gran Premio di Germania), che vide il trionfo dei corridori italiani: 1° Binda, 2° Girardengo. Una rivalità, quella tra il Trombettiere di Cittiglio (questo il soprannome di Alfredo perché, da ragazzo, suonava la cornetta nella banda di Nizza) e il Campionissimo di Novi Ligure, che segnerà la carriera di Binda, così come il suo difficile rapporto con la Classicissima Milano- Sanremo, che vincerà per la prima volta soltanto nel 1929, dopo tanti sfortunati tentativi. Racconto che prosegue anche dopo il ritiro dalle corse, avvenuto nel 1936: ci sarà, infatti, Binda, con il ruolo di commissario tecnico, sull’ammiraglia della squadra italiana al Tour de France del 1948, quando Bartali, con la sua inaspettata e trionfale vittoria, scongiurò, come vuole la leggenda, la guerra civile che avrebbe potuto scatenarsi in Italia dopo l’attentato a Togliatti del 14 luglio.

Accanto a quella di Binda fanno da contorno tante altre storie, che rendono la dimensione di ciò che era il ciclismo degli albori, come quella di Gaetano Belloni, che corse e vinse un Giro d’Italia e varie classiche, nonostante che da ragazzo, come apprendista in una fabbrica tessile, avesse perso l’indice e il pollice della mano destra in un incidente sul lavoro. O come il corridore francese Honoré Berthélémi, che c’aveva rimesso un occhio in una caduta al Tour del 1920 e che proseguì la carriera correndo con un occhio di vetro che lo costringeva a fermarsi e a sistemarlo quando, per i sussulti della strada, gli usciva dall’orbita. Fino ad arrivare alla storia straordinaria e misteriosa di Ottavio Bottecchia, bersagliere ciclista durante la prima guerra mondiale, arrivato al professionismo soltanto a ventisette anni, dopo aver lavorato come calzolaio, carrettiere e muratore. Classificatosi quinto al Giro del 1923, al quale aveva partecipato come “isolato” (cioè senza squadra e senza assistenza tecnica, praticamente un cicloturista), venne notato da un giornalista incaricato di reclutare ciclisti italiani da portare al Tour. E Botescià (com’era chiamato dai francesi) fu il primo italiano a vincere la Grande Boucle nel 1924 e nel 1925, per poi morire in circostanze mai del tutto chiarite nel 1927.

Foto di Giacomo Brini

Si ringrazia per la collaborazione e per averci ospitato per le foto l’Officina Bici di Livio Cervi, in via Capo delle Volte 16, a Ferrara

«Ho scelto di parlare di Binda per varie ragioni – commenta Edoardo Rosso. Prima di tutto perché di lui si era persa un po’ la memoria; al di là dei risultati straordinari, non era un personaggio da copertina, aveva un carattere molto schivo e questo ha finito per metterlo in secondo piano rispetto ad altri ciclisti della sua epoca, che si concedevano di più alle folle. Poi è morto nel 1986, anno in cui io sono nato e anche questo ha contribuito, in un certo senso, a creare un legame; inoltre, io sono piemontese e c’è un detto dalle nostre parti, “Al và com’un Binda!”, che sentivo spesso ripetere da mio nonno quando vedeva uno che andava forte in bicicletta. Avevo questo nome nella memoria e ho voluto riscoprirlo. Ho conosciuto un ciclista molto moderno, che in un’epoca di pionieri già curava parecchio la preparazione atletica e l’alimentazione. Forse, questa sua cura dei dettagli era dovuta al fatto di essersi formato come corridore in Francia, realtà che dal punto di vista tecnico era molto più avanti della nostra».

Rosso ha vissuto diversi anni a Ferrara, dove si è laureato e dove ha condotto buona parte delle sue ricerche: «Il libro ha avuto una gestazione lunga, circa un anno e mezzo, durante il quale il personaggio di Binda mi si è delineato man mano con maggiore chiarezza. Ho visitato i suoi luoghi, sia Cittiglio sia Nizza, ma un ringraziamento particolare va alla biblioteca Bassani di Ferrara, in cui c’è una sezione interamente dedicata al ciclismo, con libri che riportano il resoconto dettagliato, tappa per tappa, di tutti i giri d’Italia e da cui ho attinto molte informazioni. Ricordo che andavo in biblioteca durante l’inverno, in bicicletta, sia con la pioggia che con la nebbia e mi sembrava come di immedesimarmi nelle imprese di Binda».

Nel suo racconto, Edoardo Rosso traccia un parallelismo tra l’ascesa del campione di Cittiglio e il consolidarsi, negli stessi anni, del regime fascista: «Binda- commenta- è riuscito a non farsi mai sfruttare come simbolo del fascismo e, allo stesso tempo, a non proporsi mai come antifascista. Si può dire che abbia avuto la fortuna di capitare in un periodo in cui si stava affermando, come suo rivale, Learco Guerra, la “Locomotiva umana”, che aveva un temperamento meno calcolatore e tattico di Binda, più capace di entusiasmare la gente. Anche per questo ha potuto rimanere un po’ in disparte nei confronti della Dittatura». Fascismo che non è mai riuscito ad assimilare del tutto il ciclismo e a utilizzare la popolarità di questo sport come strumento di propaganda: »Il ciclismo era l’espressione di un’Italia “stracciona” e povera che al Regime non conveniva mostrare troppo in giro e questo gli ha permesso di mantenere la propria purezza».

C’è un episodio curioso capitato durante il tour promozionale del libro: »Eravamo a Milano e, alla fine di una presentazione, alla quale aveva partecipato anche il figlio di Candido Cannavò, storico direttore della Gazzetta dello Sport, dal pubblico si alza una signora che si presenta come Lauretta Binda, la figlia di Alfredo. Io, che non sapevo assolutamente nulla della sua presenza, sono sbiancato, temendo che mi accusasse di aver raccontato un sacco di scemenze su suo padre. Invece era molto contenta di conoscermi, tanto che adesso stiamo per organizzare un incontro a Varese, per parlare del libro proprio nei luoghi di Binda».

“Binda l’invincibile” è un libro che appassiona e che si legge tutto d’un fiato, proprio perché apre una finestra su un ciclismo che facciamo fatica anche soltanto a immaginare che sia potuto esistere.

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