Intendiamoci, Ferrara mi piace. Più che una vera città assomiglia a un paesone di provincia, con la campagna che incombe perfino a ridosso del centro. Una città incompiuta, difficile da immaginare più evoluta, una sorta di Bologna barzotta, volendo usare ben altre similitudini. Dalla finestra della mia stanza si scorge un pezzo di casa affacciata alla piazzetta e nient’altro che il cielo. A vedere soltanto quei mattoni rossi e scomposti viene in mente una vecchia casa colonica, un cortile sottostante con i polli e il trattore parcheggiato in un angolo.

In particolare nei pomeriggi di sole, quando non arriva alcun rumore a ricordare di essere incastrati in pieno centro, immagino che di fronte a quella casa, sul lato invisibile dalla mia finestra, ci sia una distesa di campi fino all’orizzonte. Tale scenario si completa con l’evocazione di una condizione psicologica caratteristica della vita rurale in famiglia prima del boom economico del secolo scorso, qualcosa che riguarda l’incomunicabilità tra persone appartenenti allo stesso sangue.

Non so se mi spiego. Faccio un esempio: il caso della ragazza di famiglia proletaria, che appena maggiorenne conosce un esponente dell’alta società locale. Si frequentano di nascosto all’ombra delle rispettive famiglie che sospettano ma non entrano nel merito, spesso gli incontri si concludono con un rapporto sessuale. Ne consegue la paura di una gravidanza, l’ipotesi di concepire un futuro insieme, l’illusione (da parte di lei) di un matrimonio per incollare un quadretto sicuro. Sia il Testori nel suo “Il Ponte della Ghisolfa” e il Bassani nel racconto “Lida Mantovani” hanno affrontato il tema con grande maestria. Il primo nella Milano operaia del dopoguerra, il secondo nella Ferrara del ventennio ancora incordata con la campagna nebbiosa a ridosso dei bastioni. In entrambi i casi, appena la ragazza annuncia la gravidanza, il rampollo benestante la abbandona per rimettersi in carreggiata nella sua dimensione e sparire, abbandonando la ragazza al suo destino di madre dalle aspettative tradite.

In entrambi i casi sussiste un capogiro di considerazioni sulla condizione emotiva della ragazza che non trova alcuno sfogo in una possibile emancipazione insieme al padre naturale. In primo luogo, secondo me, perché manca un confronto dialettico inerente la questione tra la ragazza e sua madre. La faccenda si risolve in una sorta di cazziatone omertoso dilatato negli anni, stante a dire che adesso il figlio te lo tieni e lo devi crescere qui con noi, perché tu ragazza sei povera figlia di poveri e come tale devi rimanere. Non abbiamo né i soldi né qualsiasi altro appiglio sociale o culturale per poter risolvere la circostanza in sede legale o privatamente. Non c’è alcuna via di fuga dalla realtà dei fatti, c’è soltanto rassegnazione. Non so se mi spiego.

Non so perché, ma quando dalla mia finestra guardo quello scampolo di mattoni rossi bombardati dal sole mi viengono in mente i miei genitori. Mio padre, figlio di un minatore, e mia madre, figlia di contadini, entrambi figli di una Sicilia post bellica dove le giornate si svolgevano ignoranti e dignitose, lontano dai centri urbani dove nasceva la cultura di massa che in pochi decenni avrebbe allineato qualunque individuo in funzione della sua utilità come consumatore. È in una casa come quella, dico così perché l’ho vista, che mia madre si svegliava la mattina per accompagnare i suoi fratelli a sudare nei campi, finché non ha conosciuto mio padre, il quale, invece, ha avuto modo di studiare fino al diploma, per poi emigrare con mia madre a Milano e investire il proprio tempo vitale negli uffici della periferia industriale.

Ecco, della trama dei fatti avvenuti prima di tale spostamento io non so un bel nulla. Non so niente di eventuali sofferenze sentimentali vissute dai miei genitori prima di pensare una famiglia, chissà se si sono mai ubriacati fino allo scorno in qualche festa di paese, non so niente dei bar dove facevano le ore piccole con i coetanei aspettando che i genitori finissero di ciarlare, chissà se mio padre negli anni ’70 si è mai fatto due o tre canne risvegliandosi con di fianco una donna di cui non ricordava il nome, chissà se mia madre ha mai atteso sul portone di casa invano un ragazzo che le aveva promesso di ballare una mazurca e magari potrebbe essere lui mio padre, chissà se mio padre ha mai fatto il coglione con l’accendino sui pappi dei pioppi per terra rischiando di incendiare un intero parco. Niente. Se provo a chiedere qualcosa, cioè le poche volte ormai di trasferta in cui li incrocio a tavola, la risposta è del tipo: “Pensa a mangiare!”.

Allora dico io, in tutta questa filippica dai contenuti il cui filo conduttore non so se mi spiego, mentre fisso i mattoni rossi che riempiono la finestra e non rispondo alle chiamate di Beppe Vessicchio, mi chiedo anche bestemmiando: ma non potevo annoiarmi come tutte le persone normali?

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