Evidenza, linguaggio, chirurgia. Estrapolo tre sostantivi dal titolo di un congresso di due giorni a Ferrara, rivolto a operatori della sanità. ‘Evidenza e linguaggio in chirurgia laparoscopica’. Un appuntamento promosso dalla Società italiana di chirurgia endoscopica e nuove tecnologie, suddiviso in diverse sessioni e arricchito dalle illustrazioni di una mostra. Quindici opere grafiche, racchiuse dietro il suggestivo titolo ‘Anathomika’. Osservo il modo in cui le tre parole attraversano i disegni. Ci scorgo l’evidenza del segno, il dinamismo del linguaggio, l’abilità quasi chirurgica nella creazione di un collegamento fra le immagini. Tutto torna. A colpirmi è il richiamo ricorrente agli organi del corpo umano, in un’atmosfera di sospensione fra reale e surreale. Contatto l’autore e scopro che si chiama Giorgio Moretti e che lavora in uno studio di tatuaggi.
Come è nata l’idea di dar vita alla mostra ‘Anathomika’?
«Tutto è nato un po’ per caso, quando mia moglie è stato operata alla colecisti. Durante l’intervento, per trascorrere il tempo, mi sono procurato un bloc-notes e, da appassionato di biologia e anatomia umana, ho cominciato a disegnare. Dopo circa un paio d’ore è uscito il chirurgo, che ha visto la mia illustrazione e mi ha detto che prima o poi avrei collaborato con lui. Così, una volta che si è trattato di organizzare il congresso, mi ha contattato ed è nata l’idea della mostra».
In quanto tempo hai realizzato le illustrazioni?
«Qualche mese, ritagliandomi del tempo fra il lavoro e la famiglia. Il bello è che le illustrazioni nascono così, non in maniera automatica, ma dalla percezione delle cose».
Che cosa ti affascina dell’osservazione del corpo umano?
«Fin da bambino ho sempre provato interesse a guardare le tavole dei volumi antichi di chirurgia, al richiamo che mi restituivano verso un’altra dimensione».
C’è un elemento che lega le singole illustrazioni?
«Intanto il tema del viaggio. C’è il viaggio che effettua il chirurgo, c’è quello dello spettatore e c’è il mio. E poi, l’aspetto dell’osservazione. C’è un occhio che ricorre in diverse illustrazioni, anche in una dove è presente un microscopio».

Foto di Giacomo Brini

Che tipo di rapporto è quello fra arte e medicina?
«Sono due mondi assolutamente affini. In un certo senso, il chirurgo è un artista. Il suo lavoro lo porta a compiere un’interpretazione della rigenerazione fisica. Con tutti gli errori che caratterizzano la natura umana».
La natura umana è più perfetta o più inafferabile?
«Inafferabile. Spingersi a capire fino in fondo questi due aspetti è come muoversi sull’orlo di un abisso».
Quando è scattato in te il desiderio di rappresentare graficamente qualcosa?
«Si tratta di una cosa antica, che mi porta indietro all’età da bambino. Alla percezione di una capacità diversa dal normale. Un ‘demone’ che andava nutrito dai primi momenti della sua esistenza. E il nutrimento gradualmente si misurava con i primi limiti tecnici, poi con l’apprendimento degli studi scientifici, della conoscenza naturalistica, fino ad arrivare a comporre quello che sono adesso».
Illustratore e tatuatore sono facce di una stessa medaglia?
«Io nasco come illustratore. La manualità che ho acquisito mi ha permesso di utilizzare il tatuaggio come compromesso per interpretare i sogni delle persone».
Quando pensi alla figura umana, la immagini in termini di contenuto o di contenitore?
«Direi come contenitore. Perché rappresenta un contenitore di stimoli, e richiama quell’abisso inarrivabile di cui ti parlavo prima. Un contenitore senza fondo».
Ricordi il primo tatuaggio che hai realizzato?
«Certo! A un amico che si è prestato, ho tatuato una testa di leone. Me lo ricordo ancora».
E quello che hai impresso per primo sulla tua pelle?
«A sedici anni mi feci tatuare un piccolo drago. Non so spiegarti il motivo preciso, era qualcosa che con parole definirei ‘trasgressione’».
Ultima domanda. Ci sono più cose reali o immaginarie da rappresentare?
«In questo momento mi sto dedicando allo studio della realtà. Ci sono più cose reali da rendere immaginarie».

 

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