di Elena Bertelli

Cos’è MEme? Non è una foto ritoccata con frasi divertenti, non è un evento, non è una mostra-mercato, non è una convention e nemmeno una fiera. Ci sono andata per capire meglio e provare a descrivere MEme ai lettori di Listone Mag. Tuttavia, anche dopo un’intera giornata trascorsa dentro al Mercato coperto di via Santo Stefano (la sede del non-evento e della non-fiera) mi resta difficile descrivere a parole di cosa si tratta, soprattutto se nel farlo cerco di evitare inglesismi, neologismi e termini respingenti per chi teme il nuovo solo perché non lo si sa pronunciare.

Sul sito Memexposed.com l’iniziativa veniva presentata così: “MEme 2015 è un concentrato di attività di formazione, presentazioni di idee, soluzioni a bisogni, sedute di problem-solving, finalizzato allo sviluppo di un reale ecosistema di innovazione in cui vari ambiti di lavoro (tecnologico, digitale, sociale) si integrano, favorendo la resilienza del fragile sistema produttivo tradizionale.” Un’innovazione, si legge sempre sul sito, declinata su “bisogni delle aziende nell’ambito della disabilità / accessibilità in tre specifici ambiti: innovazione produttiva interna; innovazione dei servizi erogati; innovazione sociale e culturale”.

Suonava tutto davvero bene, ma non mi era molto chiaro cosa significasse concretamente: cosa avrei trovato dentro al Mercato coperto? Così ho scorso il programma degli incontri e delle iniziative (tutte a partecipazione gratuita) che vedevano le imprese presentare un’esigenza per cercare risposte concrete e finanziabili e ho scelto di iscrivermi a un hackathon, per entrare nel vivo di MEme.

L’hackathon è letteralmente una maratona di persone che di fronte a un problema lo smonta per cercare diverse soluzioni, solitamente ha a che fare con l’informatica, ma io ne ho scelto uno che non richiedesse competenze tecniche (non sono un’artigiana né analogica, né digitale e mai lo sarò, non sono una programmatrice e uso la tecnologia solo perché la ritengo uno strumento per fare meglio il mio lavoro).

Foto di Elena Bertelli

Ed eccomi, sabato mattina, insieme a facce amiche (Maurizio, Diego, Luca e Sergio, di Città della Cultura/Cultura della città -gli organizzatori – Miriam e Alessandra – le digital champions ferraresi – Chiara in rappresentanza di Legacoop…) e altre persone mai viste prima, dentro al sistema MEme. Uno spazio fluido fatto di postazioni di lavoro attrezzate e connesse, un’area dibattiti e presentazioni pubbliche, box per gli espositori di stampanti 3D (tra cui i veterani di Tryeco e, dalla Puglia How/Art un consorzio di 4 cooperative che ha portato uno speciale progetto di stampante open source). Poi, dall’altra parte del muro, i rassicuranti banchi stabili di frutta e altre bontà per recuperare le forze tra una sessione di lavoro e l’altra.

Prendo posto e raccolgo il brief da parte del responsabile dell’impresa (ferrarese) per cui dovrò impegnarmi a trovare una soluzione creativa: si tratta di utilizzare una app, messa a disposizione dall’azienda che l’ha sviluppata, per creare un racconto personale della città di Ferrara, costruendo un itinerario multimediale in occasione del ventennale della nomina Unesco. A mia disposizione una guida sull’utilizzo della app e i responsabili insieme agli altri giovani partecipanti (sulla carta miei rivali), sempre pronti a rispondere a dubbi e domande. In pratica devo mettere a frutto le mie conoscenze della città e utilizzare uno strumento digitale per trasformarle in un racconto destinato a un eventuale turista. Una sfida divertente e alla mia portata, e 7 ore sono volate! Alla fine della giornata di lavoro ogni gruppo ha presentato in pubblico il proprio progetto ed è stato assegnato il premio per il miglior racconto: uno stage presso l’azienda per poter sviluppare sul serio questa guida multimediale per i visitatori della città.

Questo esercizio, così come per gli altri tavoli di lavoro coordinati da altre aziende tutte intorno, ha visto i partecipanti impegnati per buona parte della giornata: a ogni tavolo diversi gruppi che si sfidavano tra loro nel tentativo di dare la risposta migliore e più innovativa rispetto al bisogno espresso dall’impresa: alcune aziende hanno messo in palio premi davvero allettanti: 800 euro e l’impegno a sviluppare il progetto insieme agli ideatori. A fianco a me ragazzi e ragazze, spesso più giovani di me, da diverse parti di Italia, chini sui loro pc, determinati a vincere la sfida, mettendo a frutto competenze diverse per lo più informatiche, e realizzando una presentazione finale del progetto attraverso la quale avrebbero dovuto convincere la giuria della validità del lavoro svolto.

Nel frattempo, nell’area dibattiti si discuteva sull’evoluzione delle figure professionali in questo strano mondo dei nuovi lavori, che ancora non vengono giustamente valorizzati e sono spesso sottopagati e scarsamente tutelati. In un angolo qualcuno faceva una pausa sfidandosi al calcio balilla.

Nel pomeriggio, prima delle presentazioni finali dei lavori dei gruppi, il vero momento di incontro con la fantascienza divenuta realtà: un gruppo di giovani professionisti visionari ferraresi ha presentato un dispositivo – una sorta di casco con uno smartphone integrato – che indossato proietta l’utente in una dimensione parallela, incredibilmente verosimile, garantendo un’esperienza immersiva all’interno di un contesto ricreato (la realtà virtuale!).

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Ho indossato il dispositivo e sono partita per un vero viaggio tra luoghi della nostra città e della provincia: era il racconto che questo team di lavoro ha realizzato per presentare Ferrara all’Expo. Mica male davvero questo surrogato di “estensità” virtuale, non faccio che pensare se potessi avere sempre a disposizione una New York o un litorale salentino da indossare e rivivere quando ne sento la nostalgia…

Sono arrivate fin troppo in fretta le 7 di sera, mettendo in fila le sensazioni e l’esperienza personale vissuta ne esce un bilancio della giornata totalmente positivo – per pochi punti di distacco non ho vinto lo stage aziendale e, considerata la mia età, è senz’altro un bene.

Una buona dose di divertimento, nuovi contatti con persone e aziende attive sul territorio, la possibilità di dare una mia impronta personale a un progetto e presentarlo in pubblico e di ascoltare le competenze di altri professionisti applicati a progetti davvero importanti sul fronte accessibilità delle strutture, l’emozione di provare una nuovissima tecnologia che spopolerà certamente nel prossimo futuro, diverse porzioni di frutta ingerite, il tutto a poche pedalate da casa, nel centro della città e in un luogo aperto a tutti, gratuitamente.

A MEme ho trovato il mio posto: il grande ambiente del Mercato coperto uno spazio fluido di lavoro, con tante formichine operose, ognuna impegnata sulla sua personale missione ma connessa e reattiva rispetto a quanto accade attorno, una dimostrazione di dove può arrivare la cooperazione. Nello spazio risuona l’eco del linguaggio tecnico degli addetti ai lavori – wereable, hackathon, dataset, internet of things, beacon, giroscopio, open data, smartband – eppure nessuna forma di esclusione o snobismo nei confronti di chi, come me, non ha ben chiaro il significato di tutte queste parole e, nonostante tutto vuol entrare in contatto con l’innovazione.

Ora, arrivata alla fine di questo racconto, so cosa l’ha reso tanto faticoso: di spazi come MEme ne esistono pochi in Italia, ciò che è stato ricreato dentro al Mercato coperto in questi giorni è il futuro! E, a meno che voi non siate Kathryn Bigelow o i fratelli Wachowski, avrete difficoltà nel descriverlo al grande pubblico. Non vi resta che fare come me, aspettare la prossima edizione di MEme, lasciare a casa la timidezza e l’ansia da prestazione: troverete il vostro posto e, alla fine della giornata, desidererete tornare ogni giorno in un luogo di lavoro come il mercato Coperto, con dentro i makers, qualsiasi cosa essi siano.

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