Cosa vuol dire borderline? Tralasciando la psichiatria e i disturbi della personalità, borderline è qualcosa di incerto, che si pone al confine tra due mondi, sbilanciato appena più in là. É qualcosa che appartiene a un’altra realtà ma non troppo distante, si può sfiorare con la mano se ci si sporge.

Penso a questo quando arrivo a casa dopo la prima giornata di festival. E ora dovrei precisare cosa è stato e quando e dove. Lo faccio asciugando le informazioni: Borderline, festival delle etichette indipendenti e delle produzioni dal basso, sabato 5 e domenica 6 settembre presso La Casona di Ponticelli, ridente frazione di Malalbergo sperduta nel verde remoto della campagna emiliana, appena lavata dalla pioggia. Dovrei spiegarvi con tanti punti esclamativi quanto era buona la piada con i pomodori e l’hummus, elencare una a una le band che sono salite sui due palchi, magari intramezzare il tutto con qualche inciso a cura degli organizzatori.

Dovrei descrivervi le mutande serigrafate, i libri illustrati, il pastis che mi ha offerto un disegnatore di Verona, i saponi realizzati in casa da una ragazza che conosco. Dovrei dovrei dovrei.

Foto di Corradino Janigro

Ma non ho voglia. Quello che ho voglia di raccontarvi è questo. Ci sono delle domande a cui non si trova risposta, per lo meno univoca. Una di queste domande è la seguente: a cosa serve l’underground?

A rispondere ci hanno provato in tanti, tra questi un ragazzo di Palermo chiamato Turi Messineo, che sul tema ha realizzato un libro e un documentario intitolato “Black Hole”. Due anni e mezzo di viaggi per raccogliere testimonianze, opinioni, ricordi legati a quella che si può molto sommariamente definire “la storia della controcultura italiana”, dalle prime esperienze dei centri sociali di Bologna agli appartamenti occupati a Roma, dalla scena hip hop napoletana ai writers torinesi, passando per le radio prima libere e poi meno libere, le manifestazioni, i collettivi, segni e simboli generazionali. Ho visto il suo lavoro proiettato tra un concerto e l’altro in una sala spoglia e fresca, verosimilmente una volta era una stalla. Dice lui – che ha girato munito unicamente di una GoPro e di un iPad – che “il bello di questo mondo è la semplicità, poter essere diretti, raggiungere tutti subito”. I contatti per realizzare oltre sessanta interviste se li è procurati così, col passaparola, grazie agli amici e agli amici degli amici. Dice anche che “l’underground è una matassa fittissima e lunghissima, che si sviluppa a partire dai movimenti degli anni Sessanta e arriva fino ai giorni nostri”.

Non sono solo parole: tra i volti filmati c’è anche quello di Philopat, autore di “Costretti a sanguinare”, nume tutelare del punk made in Italy, che parlando cita Primo Moroni, il libraio milanese che – tra le varie – organizzò nel 1974 il convegno “Per un’editoria e un circuito di diffusione per una cultura alternativa nella scuola e nella società”. A lui è dedicata l’associazione che qualche tempo fa ha acquistato La Casona, associazione che oggi ospita Radio Strike e lo strano festival musicale che l’emittente ferrarese si è impegnata a organizzare, festeggiando quest’anno la terza edizione. É come attraversare un torrente saltando dal un sasso all’altro, e mi viene da pensare che la diversità delle rocce sulle quali ci si appoggia sia solo apparente.

Fanzine, dentifrici realizzati con l’argilla e i chiodi di garofano, canzoni e fotografie: il minimo comune denominatore – la continuità della “matassa” – è la prassi della relazione?

Borderline, completamente autofinanziato e autoprodotto: diciotto gruppi invitati a suonare, tra new entries e vecchie glorie, diciotto etichette, tutti rigorosamente non iscritti alla Siae. L’operazione non ha nulla di illegale ma si pone evidentemente un passo più in là rispetto alle abitudini consolidate, nel territorio ancora quasi del tutto inesplorato dell’alternativa. Alternativa che va costruita e diffusa sfruttando in primo luogo il dialogo: il festival serve a far ascoltare della bella musica dal vivo ai ragazzi che abitano tra Ferrara e Bologna, serve anche a far sedere attorno allo stesso tavolo attori diversi che hanno deciso di intraprendere un percorso simile, ma che spesso si trovano sulla strada da soli – artisti ma anche operatori culturali, organizzatori di eventi, creativi nel senso più ampio del termine. Perché internet è utilissimo per impostare quella che potrà costituirsi come una rete, ma chiacchierare uno di fronte all’altro, addentando un pezzo di salsiccia, è un’altra cosa. Lo spazio è fondamentale, non è certo un caso se per definire un certo tipo di esperienze si continui a utilizzare la parola underground.

Underground è il sotterraneo, il fiume carsico che corre sotto il mainstream. Borderline è qualcosa a portata di mano, appena oltre il muro. Un’opportunità da cogliere.

Foto di Corradino Janigro

1 Commento

  1. Fabio Zecchi scrive:

    La tua domanda mi incuriosisce molto, se serva ancora l’underground o meno. Secondo me oggi non esiste più una vera e propria alternativa a qualcos’altro, perché oggi (semplifico brutalmente) qualsiasi spunto ha (in teoria) possibilità di essere messo in circolazione, emerge qualsiasi cosa senza filtro, senza percorsi (di scelta), è difficile che qualcosa abbia più risalto e pregnanza di qualcos’altro (su scale ridotte, intendo).
    Soprattutto, anche solo per il fatto di avere un profilo su un social (non per forza un sito), siamo diventati più o meno tutti “editori di noi stessi”, perché scegliamo (inconsciamente o meno) cosa e quando pubblicare: si tratta della nostra vita e non di un album o di un libro, ma è un processo di filtraggio, scelta, cura e pubblicazione dei “contenuti” secondo me affine a un processo editoriale. Siamo tutti editori oggi, ormai.

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