Ci sono parole che ritornano, in Die. Si rincorrono e si ripetono, mutano e si riappropriano dei loro spazi. Quando chiedo a Jacopo Incani – ovvero Iosonouncane – che cosa sia per lui la parola, mi risponde con una frase di Maria Lai, un’artista contemporanea sarda come lui, da poco scomparsa. “Lei diceva che l’arte, e quindi l’opera d’arte, è quella concretezza che raccoglie in sé una parte di universo, la cui funzione è quella di permetterci di tenere in mano qualcosa che altrimenti non riusciremmo nemmeno a percepire. E la parola è per me uno degli strumenti possibili per fare questa cosa qui, ovvero riuscire a dare concretezza a qualcosa che altrimenti sarebbe inafferrabile”.

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Di Die e del suo autore si è parlato molto e in molti posti differenti. Per saperne di più e leggere qualche buon articolo su di loro basta fare una piccola ricerca in Internet, che vi consiglio. Qui abbiamo voluto giocare con la potenza dei luoghi e, appunto, la forza evocativa delle parole per capire cosa c’è oltre (e forse prima di) Die. Divisa tra cielo e sabbia, in inquietante equilibrio sul confine, nella copertina dell’album c’è una donna sdraiata, di spalle. Sopra di lei il titolo dell’album, pesante e inevitabile. Cosa vede? Cosa ha visto? Abbiamo provato a capirlo insieme a Iosonouncane, che il 15 luglio ha aperto il concerto dei Verdena a Ferrara sotto le stelle.

Che cosa sono le nuvole.
«Essendo nato a due passi dal mare – letteralmente a pochi metri – sono cresciuto con una visuale estremamente ampia, quasi concava, dell’orizzonte. In questa zona molto battuta dal vento, le nuvole le ho sempre percepite come un segno lampante e continuo di qualcosa di vivente. E assolutamente mutevole.
La sequenza in cui riprendo ‘Che cosa sono le nuvole?’ di Domenico Modugno, che adesso è l’intro dei concerti, era la parte centrale di una suite divisa in tre parti, di cui Stormi – uno dei sei brani ora nell’album – doveva essere l’inizio. Poi le cose sono cambiate e sia la parte iniziale di questa traccia che quella conclusiva, che sfociava in qualcosa di più tribale, sono state eliminate. Durante un viaggio in macchina riascoltai tutto il materiale che avevo scartato dalla lavorazione di Die, anche questa sequenza. Da qui venne l’idea di riutilizzarla come intro nei live. Al di là del fatto sonoro in sé – nel senso che mi piacciono molto il suono di quel micro loop e la sua caduta di un tono, che poi lascia spazio all’ingresso del canto a tenore sardo – mi piace partire con un frammento di musica italiana d’autore del passato, per poi declinarlo in tutto il concerto. Sia dal punto di vista sonoro e irrazionale che da quello più giocoso e razionale, questo frammento ben si lega al senso complessivo del progetto».

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Un’isola è un’isola solo se la guardi dal mare.
«Nel film Lo squalo, il protagonista è uno sceriffo di un’isola che ha la fobia del mare. Ad un certo punto gli viene chiesto come questo sia possibile visto che, appunto, egli vive in un’isola. Allora lui gli risponde con questa frase: l’isola è un’isola solo se la guardi dal mare. Ecco, io non ho mai percepito, almeno fino a una certa età, questo essere ‘cresciuto in un’isola’. Lo percepisci solo nel momento in cui i tuoi bisogni da adulto, di realizzazione e professionali, ti mettono in faccia la realtà, e cioè appunto il fatto che vivi in un’isola con tutto quello che questo comporta, soprattutto da un punto di vista economico. In Sardegna arriva ed esce molto poco, perché ogni spostamento è estremamente costoso. Sostanzialmente, se vuoi spostarti dalla Sardegna è molto difficile che tu riesca a farlo da turista o per un weekend, ma lo devi fare da migrante. Così ho fatto io, così hanno fatto centinaia e centinaia di altre persone».

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Buggerru, volendo un’isola nell’isola.
«Il fatto di vivere su un’isola lo percepisci da adulto, quando passa l’infanzia, quando passa l’età dell’adolescenza. Fino a quel momento io ho vissuto in una sorta di isola nell’isola. Il mio paese infatti è infossato in una gola profonda davanti al mare, che mi ha sempre dato la percezione di vivere più in una conca che su un’isola. Buggerru è una sorta di presepe, paesaggisticamente parlando. È un luogo profondamente segnato dall’estrema limitatezza dello spazio, che si pone in continuo confronto con la sfrontatezza del mare e il suo essere all’occhio percepito come infinito. Più che l’essere cresciuto in un’isola, mi ha segnato la convivenza violenta – e per questo vitale – di questi opposti. Poi, più vai avanti – e quindi vai indietro a ricercare e decodificare ciò che ti ha preceduto – più ti rendi conto che la Sardegna è veramente un’isola, e che tutta la formazione millenaria della cultura sarda è figlia anche di ragioni geografiche, morfologiche».

La poesia della terra vista da dentro. Una cura.
«Manlio Massole è un poeta, ed è un minatore. Anzi, lui preferisce essere riconosciuto come minatore, ed è anche poeta. Lui ha una storia pazzesca. Fino al 1972 è stato un insegnante. Poi, per tutta una serie di ragioni, decise di licenziarsi e di andare a lavorare in miniera, inizialmente con l’intento di scrivere un saggio antropologico sui minatori. Poi, come tutti i minatori, ha subito il mistero della miniera, che è il mistero della terra vista però da dentro. Ha pubblicato due raccolte di poesie: la meravigliosa ‘Risacca’, che è precedente a quella che lui chiama la sua cura, ovvero l’ingresso in miniera, e ‘Bethger: il lungo dolore’, che raccoglie le successive. È stato in miniera fino a quando non è andato in pensione, ora ha 86 anni. Manlio lo conosco da sempre, perché era il maestro elementare di mio padre e anche perché in un paese di settecento abitanti ci si conosce un po’ tutti. Quando ho iniziato a lavorare ai testi di Die ho notato subito che ritornavano degli elementi, fin dal principio venuti fuori in maniera estremamente autogena, istintiva. Era un punto di vista, un lessico, che dovevo indagare meglio. Per questo ho deciso di incontrare Manlio, proprio perché lui è un minatore con la sensibilità e lo sguardo di un poeta. Abbiamo fatto lunghe chiacchierate, io e lui».

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La miniera. Un abito, un’abitudine.
«Quando sono nato e cresciuto io, le miniere avevano già cessato la loro attività. La miniera è una cosa estremamente impressionante. Le due montagne che raccolgono Buggerru sono sostanzialmente vuote all’interno, svuotate completamente dal lavoro di estrazione mineraria. Sia all’interno del paese che immediatamente all’esterno, ci sono diversi ingressi e il principio di differenti gallerie e pozzi minerari.
Le miniere sono più o meno strutturate tutte così: ci sono diversi livelli di scavo, distanziati da venti metri ciascuno. Da un livello all’altro ci sono dei pozzi, alcuni servono per il passaggio del minerale, altri per il passaggio dei minatori. È quindi un reticolato, scavato nella pietra, di cunicoli, di passaggi. Ed è una cosa estremamente impressionante perché è un canale di riemersione dell’interno verso l’esterno, o almeno io lo percepisco così. È la pietra nuda, interna, quella che non è mai stata toccata dal sole. Ovviamente è una visione anche molto inquietante, molto, perché è uno spazio che non è quello dell’uomo vivo, ma è più lo spazio dell’uomo morto. O almeno lo è nella nostra cultura. È molto inquietante ed emozionante, però, raccontano i minatori, dopo un po’ ci si abitua».

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I minatori, storia di un amore.
«Tutti loro si sono abituati a questo aspetto della miniera con molta facilità. Ad aiutarli in questo c’è la necessità di sconfiggere quotidianamente la paura di doverci andare. Ad un certo punto, il minatore vive la propria vita in una duplice dimensione: quella della luce e quella del buio. Nel momento in cui entri in miniera da minatore, in qualche modo ti stai veramente lasciando all’esterno tutto quanto. E lo devi fare per forza, perché se ti portassi all’interno della miniera ciò che c’è all’esterno – la famiglia, i figli – non potresti sopravvivere alla paura di non poter rivedere quello che hai lasciato all’esterno. Quindi, inevitabilmente, te ne devi spogliare.
Non c’è minatore che non sia innamorato della miniera. Nonostante si trattasse di un lavoro sfiancante, disumano, tutti i minatori ne sono innamorati. Tutti quanti. Un lavoro come quello del minatore, o anche del pescatore – che è il lavoro della mia famiglia -, è un lavoro durissimo. La pesca d’alto mare implica lo stare in mare sei giorni su sette, perennemente, senza ritorno a casa. Sono lavori massacranti. Però allo stesso tempo, sono lavori che ti portano anche molto vicino non tanto alla natura, quanto al suo mistero. Ti portano ad un contatto con il mistero della natura. E questo porta inevitabilmente all’innamoramento».

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Confronti.
«In un qualche modo, fare il musicista, metaforicamente, è un po’ come fare il minatore o il pescatore d’alto mare. O almeno, io la vivo così. Mi sono spostato perché, da musicista, in Sardegna sarebbe stato difficile organizzare date, una tournée. In più c’era la volontà di confrontarsi con una dimensione maggiore e l’esperienza di altri, essenziali per affinare il proprio sguardo e di conseguenza il proprio linguaggio. Sono andato via temporaneamente dalla Sardegna per queste ragioni, ma avendo come obiettivo finale quello di poterci tornare. Quello che mi pongo ora è arrivare ad avere un’attività di musicista sufficientemente avviata, tale da poter investire quanto guadagnato durante il tour in spazio per la scrittura, in Sardegna. Poi sono tredici anni che vivo a Bologna, la mia vita è strutturata sulla complementarietà di questi due luoghi, con tutto quello che incarnano, rappresentano e si portano appresso».

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Bologna, una seconda casa.
«Mi sono trasferito con gli amici sardi con cui suonavo al liceo. Conoscenti che già vivevano là ci parlavano di Bologna come di una dimensione estremamente umana e ricca di possibilità. Anche eticamente assumeva per me un posto di rilievo, con la sua cultura underground. Sentivo che mi stavo trasferendo in una grandissima città, e i primi anni questo fu anche un problema. A Buggerru non ci sono né i semafori né le strisce pedonali, io prima di venire a Bologna non avevo mai preso un autobus in vita mia. Quando sono in Sardegna amo passeggiare con gli amici fino al porto, se sono a Bologna devo per forza dare appuntamento davanti ad un locale. Sento di essere sempre lontano da casa, anche se ho stima e amore profondo per gli emiliani, per la loro storia e per quello che rappresentano. Diciamo così: non potrei immaginare di stare da nessun’altra parte quando non sono in Sardegna».

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Solitudini.
«Esco tanto ma per passeggiare, mi piacciono gli spazi aperti, ma per bilanciare anche gli spazi molto chiusi. Mi muovo tra queste due situazioni, perché la mia indole è sedentaria, solitaria. Uscire ed andare in luoghi con molta gente per me è spesso una forzatura, anche se inevitabile.
La solitudine in Die c’è, sicuramente, ed è diversa da quella che avevo cercato di rappresentare nel mio primo album La macarena su Roma, dove la solitudine dei soggetti narrati era frutto dello scollamento fra i personaggi stessi e una sovrastruttura sociale, etica. In Die, invece, è esistenziale ed è determinata dall’impossibilità di cogliere pienamente se stessi come elementi di qualcosa di ciclico, che si rigenera in maniera perenne e senza dare spiegazioni. In Die, appunto, la solitudine è determinata dall’assenza di spiegazioni».

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“[…] Eccomi infine all’ultimo mio naufragio in Sardegna. Che non è un ‘ritorno a casa’. Il viaggio è la casa. Non solo la mia casa, ma quella di tutti noi. Siamo sulla terra, che gira a circa trenta chilometri al secondo, in un viaggio che è pur sempre un viaggio speciale, dove non si distingue la partenza dal ritorno. La vera nostalgia non è quella per un’isola. E’ l’ansia di infinito”.

Maria Lai, “L’isola dei miei naufragi”

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Immagini di Silvia Cesari.

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