“Anche la disperazione impone dei doveri
E l’infelicità può essere preziosa”

[Sopravvivere alla pianura è un gesto quotidiano, una disciplina giornaliera, è che lo capisci solo col tempo. La pianura è quella parte di terra infinita, troppo vasta e troppo profonda, delimitata a tratti da filari di alberi, comunque tutti uguali, senza speranze di mutamento. Il suo territorio ci influenza, negli umori e nei pensieri, ma te ne accorgi solo col passare del tempo (se te ne accorgi).

Io la sua presenza, quella della pianura intendo, l’ho scoperta il giorno in cui la musica dei Cccp entrò dalla porta della mia camera. Era sicuramente estate, ed era pomeriggio. Poi arrivarono anche i Csi, ma solo dopo varie stagioni. E tutti quei testi, quelle sonorità, riuscivano a farmi sentire a casa e un po’ ovunque nello stesso tempo. La scuotevano e la sezionavano, la tiravano e l’accorciavano. Alla fine me la ridavano ogni volta ribaltata, questa cara pianura.

cartolina grattacielo

Il grattacielo era l’unica cosa che riuscivo a vedere, dalla mia stanza. Per il resto c’erano solo capannoni abbandonati, garage a rischio caduta, e alberi, perfino alberi di bambù, che creavano un’insopportabile barriera tra me e il mondo. Tutti dicevano che era brutto, il grattacielo Manfredini. Ma questo palazzo era più di altri il simbolo, nel bene e nel male, del paese in cui ero nata. In effetti era un grattacielo in pieno stile anni ’60, anche se venne costruito il decennio precedente. Io l’ho sempre visto grigio, ma dicevano che appena finito ogni suo piano si differenziasse in base a un diverso colore, tanto da creare una sorta di arcobaleno verso l’alto fatto di mosaici che servivano al contenimento acustico. Al tempo era all’avanguardia e penso si portasse dietro questa sua responsabilità. Mi sembrava un luogo così decontestualizzato dal resto, dalle campagne vicine e dal ponte del fiume che gli passava davanti. Era questo inevitabile contrasto con il resto del paesaggio a farmelo piacere così tanto? No, c’era di più. Esso diventava parte di una nuova visione, anche se rimaneva lì, fermo e immobile nel bel mezzo del Polesine. Quel palazzo era lì, ma poteva essere pure altrove. Poteva essere a Berlino, poteva essere l’unico superstite di un modo che nel frattempo poteva essere esploso o ricostruito o semplicemente lasciato a marcire. Insieme ai testi dei Csi, e prima ancora dei Cccp, quella era diventata la mia finestra immaginaria sul mondo. Immaginaria ma consapevole.

Al tempo si facevano ancora i mistoni di cassette. Quella cosa strana e bella per cui ognuno diventava dj di se stesso, componendo la propria colonna sonora con programmazioni pensate e riflettute e sudate. Oppure messe su alla cazzo, tanto sulle cassette potevi registrarci su più e più volte. Le mie andavano per aree umorali e in ogni cassetta, inevitabilmente, c’era una canzone dei Cccp/Csi. Tipo quella volta in macchina, in un viaggio con i miei, dove partì ‘Morire’.

– “E questi chi sono?”

– “Sono i Cccp, papà”

– “Non voglio questa merda in macchina mia!”.

La cassetta fece un volo fuori dal finestrino. Era forse quel “PRODUCI CONSUMA CREPA FATTI SBATTITI CREPA” urlato da Giovanni Ferretti, ma penso fosse proprio quel nome – Sono i Cccp, papà – ad averlo turbato, senza ulteriore volontà di approfondimento.

Da allora i Cccp e i Csi non sono più entrati nei viaggi di famiglia, ma in quelli tra me e il grattacielo sì. Le loro canzoni, quella voce di Ferretti, erano luoghi che si respiravano, che diventavano subito vicini e tremendamente reali. L’Unione sovietica, Berlino, i Balcani e Sarajevo, la Mongolia. Oltre al bambù, dietro a quel grattacielo, ora c’era di tutto, non solo le solite vie e la solita gente con i soliti cani, ma c’era la storia che stava accadendo, la nostra storia. Erano canzoni che sforzavano al pensiero. C’era anche Reggio, c’era Carpi, la via Emilia. Quell’Emilia paranoica così simile alla mia città, fatta di pomeriggi cannibali, senza ripari. Stessi i colori e uguali i sogni, che da ovattati diventano marci si dice per via dell’umidità. Cosa stava succedendo? Chi poteva raccontarmelo, senza mentire?]

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“Non si teme il proprio tempo
E’ un problema di spazio
Non si teme il proprio tempo
E’ un problema di spazio”

“Lo sai che i miei nonni sono di Ferrara?” mi dice Angela Baraldi, così, mentre ripesco la bici incastrata tra le altre. “Per un certo verso la mia famiglia è qui”, continua la voce dei Post-Csi, alzando gli occhi al cielo e aprendo le braccia alla piazza del duomo, come se la sua famiglia fosse un po’ tutta la città. No, non sapevo dei nonni di Angela e del suo legame con questa città, anche se di fatto tutti i Post-Csi sono collegati a Ferrara per via di Giorgio Canali, chitarrista e voce del gruppo, che da anni qui ci vive. Due anni fa Massimo Zamboni ha ripreso a cantare le canzoni dei suoi Csi, accompagnato alla voce da Angela Baraldi. Nel tempo hanno deciso di unirsi anche Giorgio Canali, Gianni Maroccolo e Francesco Magnelli (e il batterista Simone Filippi) e quest’anno, per i 70 anni dalla liberazione, hanno dato vita a Breviario Partigiano, sotto il nome di Post-Csi.

È il 20 giugno e a Ferrara è piovuto tutto il pomeriggio, il check sound è slittato a due ore di ritardo rispetto all’orario previsto, i Fast Animals and Slow Kids stanno riposando in furgoncino e i Bud Spencer Blues Explosion stanno preparando i loro strumenti. “Mi ricordo che ci venivo da piccola e mia nonna Fedora mi portava sulle mura e da lì vedevo un giardino bellissimo, che ora non saprei più ritrovare”, continua Angela Baraldi. Le chiedo di darmi qualche indizio, magari posso aiutarla. Potrebbe essere nella zona del cimitero ebraico o verso via Baluardi, ma proprio non ricorda. “Cambiano le percezioni sai, quando si diventa grandi. Anche se mi portassi nello stesso luogo, molto probabilmente ora non lo riconoscerei. So solo che Ferrara è per me una città fatata, bellissima, vivibile, con questi luoghi stupendi che non saprei più ritrovare”.

Foto di Anja Rossi

Nonna Fedora diventa il filo d’unione con gli altri nonni dei Post-Csi. Anzi, diventa l’unione con il senso stesso del lavoro fatto dai Post-Csi: testimoniare ciò che in queste terre è successo settant’anni fa e cosa questo sta significando per noi ora. Ancora una volta, li ritrovo come parte essenziale della narrazione di questo territorio, del respiro di questa parte di mondo. “Con un progetto che si chiama Breviario Partigiano, tra l’altro, suoniamo a 300 metri dall’eccidio del muro del Castello”, ricorda Giorgio Canali. “Avevo un nonno, partigiano, che non ho mai conosciuto, e che è rimasto nascosto per molto tempo, latitante – spiega la Baraldi, anche agli altri Post-Csi -. Mia madre venne sfollata a Bondeno, o a Scortichino non ricordo bene, proprio dopo la mattina dell’eccidio. Lei si ricorda molto bene i morti. Quei morti e gli stivali lucidi dei gerarchi, al tempo aveva 10 anni”.

Angela continua a raccontare della sua famiglia, dei nonni poveri, analfabeti. “Ti racconto una storia della mia famiglia, anche se non so se possa c’entrare con l’intervista. Le donne della mia famiglia erano molto forti, molto fiere, molto belle. Le Felloni, anzi Feloni, perché mio nonno si vergognava della doppia elle e gliene tolse una. Quando rimase incinta mia nonna Fedora, mio nonno era militare e non voleva affatto sposarla. Disperata, scrisse alla mamma di mio nonno, dicendole che aspettava un figlio da suo figlio. Solo dopo la guerra diventarono suocera e cognata, ma la mia bisnonna, senza pensarci due volte, la prese in casa e l’aiutò a partorire. Ti racconto questa storia perché secondo me fa capire molto del carattere di questa terra. Erano semplici contadine, ma erano donne molto determinate. Sarà per tutto questo che mi piace molto che stasera suoniamo al Castello, anche se non è la prima volta, perché avevamo già suonato qui per Federico Aldrovandi. Sono molto contenta di essere qua a Ferrara per Breviario Partigiano, mi riempie d’orgoglio. È essere a casa. Mio nonno sarebbe orgoglioso di me, che canto queste canzoni”.

Anche se è tardi, e tra poco i Post-Csi dovranno salire sul palco e da lontano si sente la musica già iniziata dei Fast Animals and Slow Kids, e nonostante la protezione dei bambù del locale dove ci troviamo, emergono i nomi e le storie di altri nonni e di altre terre. D’altronde Breviario partigiano parte da ‘L’eco di uno sparo. Cantico delle creature emiliane’, il libro in cui Massimo Zamboni parla di Ulisse, squadrista e membro di un direttorio del fascio, suo nonno materno. “Le mie sono letture di nonni molto diversi da quelli di Angela. Il mio era fascista ed è stato ucciso nel ’44 dai partigiani”, racconta Zamboni. “Spesso si dà per scontato che tutti fossero partigiani. La nostra famiglia invece, per esempio, aveva aderito al fascismo. Io l’ho scoperto da piccolo, ma a casa mi raccontavano poco. Così mi sono messo a studiare la storia. E poi mi sono ritrovato a far ricerche negli archivi per otto, nove anni prima di scrivere il libro. Ho riunito gli anelli di questa catena, ma ora con molto più disincanto”.

Gli chiedo perché con più disincanto rispetto a una volta. “Perché gli uomini possono rimanere intrappolati nelle ideologie, perché l’uomo stesso non è lineare, anzi. È contraddittorio, ed è fatto di contraddizioni. Volevo sconfiggere un’educazione famigliare, volevo affrancarmi fino ad arrivare ad avere la mia idea, ora decisamente più conciliata. Per questo serve capire, studiare cosa è successo, fino a provare sentimenti di compassione e tenerezza per questa storia”. Gli chiedo se è necessario del tempo, per arrivare a provare questo tipo di sentimenti. “A questo ci si arriva solo dopo un percorso, che per me è stato molto lungo. Prima avevo solo rabbia, ma poi mi sono costruito il mio pensiero, e così facendo mi sono scoperto”.

“Da parte di mia madre, mio nonno era ciabattino”, prosegue Gianni Maroccolo, il bassista dei Litfiba, prima, e dei Cccp, Csi e Pgr, poi. “I miei nonni sono scappati sotterrando tutto quello che avevano: una cassettiera, il letto e l’orologio a pendolo. Sono rimasti nascosti in malga per un anno e una volta finita la guerra si sono iscritti al Movimento sociale italiano, una cosa molto strana. Nel Casentino ci sono paesi che han sofferto molto il fascismo e la guerra, eppure i miei nonni ritenevano che la DC fosse peggio del fascismo. In qualche modo, loro erano convinti di fare parte di un partito sociale, in cui c’erano degli ideali che non erano molto diversi da quelli del socialismo europeo”.

C’è in tutti loro la necessità di continuare a parlare di memoria, dopo aver affrontato in testi e musica l’Unione sovietica, Berlino, i Balcani e Sarajevo, la Mongolia. Ma anche Reggio, Carpi, la via Emilia. “Se non lo facevamo noi chi lo faceva? Siamo forse i più titolati per farlo – continua Maroccolo, lentamente, riflettendoci su -. Breviario Partigiano è un viaggio che parte da lontano, che parte dai Csi. Quando ho iniziato la mia esperienza con loro, i testi di Giovanni mi hanno aperto la mente. Ti costringevano per forza a riflettere, e a me sono serviti per crescere. Dopo di che ho fatto di tutto per mantenere viva la memoria storica. Ora che la velocità è sempre maggiore e che tutto si macina con ancora più rapidità rispetto a prima – e pensa che i Cccp cantavano già nel 1985 “produci consuma crepa”! – credo sia fondamentale capire da dove siamo venuti, affrontare il passato e quindi anche il nostro presente. Non è una scelta di tipo ideologico, è più la fortuna di essersi incrociati di nuovo per portare avanti il ricordo di questa parte di storia. Breviario è un progetto pieno di sincere testimonianze, per cercare di vivere tutti meglio, ora”.

[E mi pare di vederli come quel grattacielo i Post-Csi, che invecchiano e crescono. Che portano avanti la memoria, la storia della loro terra e dei loro nonni, la loro parte di responsabilità sul mondo. Ci sono buone scuole, là fuori, tra il muro dell’eccidio estense e un ristorante con le canne di bambù, che raccontano di piccoli mondi e di grandi suggestioni.]

“Occorre essere attenti per essere padroni
di se stessi, occorre essere attenti”

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