Sono paesaggi in uno spazio ideale, quello della memoria forse… poi questo suo modo di comporli in una specie di armonia astratta…

Michelangelo Antonioni

«Tutto quello che c’è su Mimì Quilici Buzzacchi per piacere».
«Emma!» mi fa la bibliotecaria.
Prima scoperta: Emma Quilici Buzzacchi, detta Mimì. Così iniziano le mie ricerche su questa artista per la mostra che si tiene dal 8 al 26 giugno al Salone d’onore del Palazzo Comunale di Ferrara, promossa dall’Associazione culturale “Stileitalico”.

Mimì nasce a Medole, nella provincia mantovana, il 28 agosto 1903 da una famiglia appartenente all’alta borghesia agraria. Nel 1920 si trasferisce nella nostra provincia e inizia a prendere le prime lezioni di pittura; dopo due anni viene a vivere a Ferrara che fa da scenario all’incontro con il futuro marito Nello Quilici, con cui avrà due figli, Folco e Vieri. E’ proprio grazie al marito, già curatore su incarico di Italo Balbo del “Corriere Padano”, che la “Rivista di Ferrara” cambia veste e da bollettino statistico del Comune prende ad occuparsi degli argomenti riguardanti l’attualità della città. Sono proprio le copertine illustrate con xilografie a colori firmate da Mimì ad essere oggetto della mostra che ruota intorno al ritrovamento delle riviste originali, messe a disposizione da un collezionista ferrarese e la riproduzione in grande formato delle copertine al fine di far cogliere pienamente la qualità grafica e la forza dell’impatto visivo a chi le osserva.
In tutto 35 numeri della Rivista che rimane sotto la direzione di Nello Quilici dal 1933 al 1935, quando è costretta a chiudere bruscamente a seguito delle “sanzioni all’Italia”.

Nella mia ricerca di immagini in preparazione alla visita faccio la seconda scoperta: io e Mimì ci conosciamo, siamo andate a scuola insieme. Per la precisione le mie compagne sono state le sue immagini, quelle stesse che sarei andata a vedere di lì a poco nelle sale del Municipio. Mi sono tornate alla memoria immediatamente: quel profilo stilizzato dell’Ariosto, il notturno del Duomo, la veduta aerea di Piazza Ariostea, uno spigolo tra gli spigoli di Palazzo dei Diamanti e il rosso del Castello Estense che emerge dalla macchia blu del fossato. Sono tutte lì, nella mia memoria, come erano sulle cartelline di cartoncino lucido che dovevano essere state commissionate in occasione di una mostra dedicata all’artista nel ’98 al Palazzo dei Diamanti e poi sparse per i corridoi del mio liceo. Ricordo che attratta dai colori e dalle linee bizzarre che ridisegnavano i luoghi del mio quotidiano le avevo fatte subito mie quelle cartelline, ma la pigrizia adolescenziale mi aveva impedito di fare ricerche in merito o quantomeno appuntarmi nella memoria il nome dell’autrice. E’ stata quindi una piacevole sorpresa ritrovarmele lì, come ritrovare un vecchio conoscente di cui si erano perse le tracce da molto tempo, “noi ci conosciamo!”.

Foto di Giacomo Brini

Ancora di più questo deve averlo pensato Folco Quilici nel rivedere le opere della madre, invitato d’onore insieme al fratello Vieri all’inaugurazione della mostra. Quelle stampe e questa città rappresentano per lo scrittore molto più che il lavoro della madre e un luogo di nascita. Scappato da una Ferrara martoriata dalle bombe, il giovane Folco si trasferì a Roma dove da studente liceale fece l’incontro di un professore di lettere che amava assegnare temi che si spingevano oltre la scolastica letteratura ma miravano a una poetica e a suggestioni che stimolavano le doti già latenti in Folco. Durante uno di questi compiti l’acerbo scrittore raccontò della sua Ferrara, la città avvolta dalla nebbia, con una carica emotiva tale da far immaginare al professore di poter percorrere quelle strade strette del nostro centro, quei muri di mattoni rossi, quelle chiese con il campanile che si può solo intuire nelle giornate nebbiose. Si incuriosì tanto quel professore da avere bisogno di sapere sempre di più di quella piccola cittadina del nord, anche per immagini e per soddisfare quella curiosità di cui era stato causa. Folco portò in classe l’album di xilografie della madre, le copertine della “Rivista di Ferrara” e ne regalò alcune che erano in doppia copia a quell’uomo che non dipanò la nebbia ferrarese ma quella che offuscava a Folco la via della scrittura che una volta intrapresa non ha più abbandonato.

Si guardano con un moto di orgogliosa appartenenza quelle immagini create da una donna che con ogni evidenza amava tanto Ferrara da proteggerla dalla forza eversiva e distruttrice del Futurismo e da farla appena sfiorare dagli echi che cambiano la prospettiva, intensificano i colori, inclinano le linee, ma non riescono a scardinarla dal suo passato, o “passatismo” e dalla gloria della sua storia.

«In questa arte grafica» dice Folco «c’è una mostra di paesaggi ferraresi che diventano icone, queste stampe sono pezzi del nostro DNA» continua guardando le opere e indicando il fratello seduto accanto a lui. Ma avrebbe potuto indicare tutti noi ferraresi lì ad ascoltarlo.
Cos’è il DNA dopotutto? Quanto di più antico e allo stesso tempo più attuale c’è in un corpo. E’ la sintesi di quello che è visibile agli occhi nell’istante stesso in cui si guarda e contemporaneamente è il patrimonio genetico che racconta la storia di generazioni, di influenze, di mescolamenti, di malattie e riassestamenti, così come è il futuro, è un binario sul quale corre un paradigma, è il racconto di cose che con buona probabilità accadranno.

Ecco la forza di queste immagini: è l’immortalità della città estense, l’innovazione degli anni Trenta, la meraviglia di un professore lontano, il vezzo di una studentessa di inizio Millennio e il tracciare già i tratti di una città futura. Dopotutto da qualche parte ho letto che “Ferrara tra 500 anni sarà Ferrara”.

3 Commenti

  1. Arianna Fornasari scrive:

    Complimenti all’autrice per il bellissimo articolo nonché al fotografo per essersi dedicati alla nostra iniziativa.

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