«Tutto questo sforzo per cento allievi. Se tutto va bene uno di loro riuscirà a farsi inseminare dall’esperienza che ha vissuto». È Horacio Czertok, fondatore assieme a Cora Herrendorf del Teatro Nucleo, a spiegarmi il senso de “L’eredità vivente“: dieci giorni di laboratori, spettacoli e dimostrazioni, organizzati a Ferrara dal 22 al 31 maggio. «Cosa resta oggi di Grotowski? E di Stanislavskij? Il Teatro d’Arte di Mosca ha congelato tutto ciò che lui ha fatto, una cosa orribile. La vedova di Brecht ha imposto che le rappresentazioni delle sue opere fossero forzatamente fedeli ai testi originali. Ma cosa resta del creatore? C’è un teatro che sparirà quando moriranno gli ultimi suoi testimoni. Lo si potrà leggere solo nei libri. Ma si può fare di queste cose un museo?»

La domanda è retorica, la risposta è ovvia: no, non si possono trasformare vissuti ed esistenze tanto straordinarie e generose in reperto. È già successo e continuerà a succedere, ma non si può. «Il teatro è invisibile, non rimane traccia di ciò che è stato, se resta è una traccia bugiarda, e infatti siamo pieni di piste false. Con “L’eredità vivente” abbiamo portato in città tre compagnie che hanno fatto la storia, che hanno saputo rivoluzionare e rovesciare il senso del teatro, uscendo dalla logica della produzione a tutti i costi, prevedibile e consolatoria. Il Living Theatre, il Teatro Comunitario Argentino, il Teatr Osmego Dnia sono stati protagonisti di un cambiamento fortissimo. Riuscire ad averli qui, in un piccolo teatro di periferia, e mettere a disposizione dei più giovani maestri come Cathy Marchand, Ricardo Talento e Ana Serralta per noi è stato veramente importante. La relazione tra maestro e allievi è qualcosa di insostituibile».

La dicotomia tra teatro commerciale e teatro sperimentale è fortissima. Torna spesso nei discorsi di Horacio: «Quando lavori in un teatro istituzionale sei inserito in una logica produttiva, con degli orari e delle scadenze da rispettare. Quando alla sera i macchinisti finiscono il loro turno di lavoro si va tutti a casa, non si resta fino alle quattro di notte a provare. Ma il teatro – per come lo intendiamo noi – è fatto di uomini, uomini che possono decidere di starsene a casa se quel giorno sono stanchi, oppure possono restare a provare fino all’alba se sentono che le cose funzionano. Con questo non sto dicendo che i professionisti sono cattivi; sanno fare il loro mestiere, se si vogliono delle rappresentazioni prevedibili con esiti prevedibili. Ma il teatro è una macchina? Con il Nucleo quando cominciano a provare non sappiamo che direzione prenderà lo spettacolo. Ci diamo la libertà di far diventare la notte il giorno e viceversa, scegliamo gli attori strada facendo e allo stesso tempo ci facciamo scegliere da loro. Ci concediamo anche la libertà della fame, come i poeti. È difficile immaginare un poeta che lavora dalle 8 alle 16, quando si è poeti si è poeti tutto il giorno, quando si è attori si è attori tutto il giorno. Il teatro istituzionale deve avere dei tempi certi, dei costi certi e un pubblico certo. Il nostro teatro deve potersi permettere anche il colossale fallimento, perché solo così si può andare aventi. L’errore di oggi è il successo di domani».

Foto di Luca Malaguti

Non è ovviamente solo questione di modus operandi. Il baratro che divide i due mondi non è fatto tanto di orari da rispettare quanto di visioni.

Quanto sta succedendo succede perché il nostro teatro
accetta le modalità di procedura di una società omicida
e le fa apparire meravigliose
fa gran caso di banalità
in una vita di tribolazioni
fa apparire tollerabile l’intollerabile
fa sembrare la vita piacevole e divertente e dà facili risposte
e quando chiedo perché il pubblico permetta a ciò di accadere
mi accorgo tristemente che è davvero
perché questa vita che meniamo sta diventando insopportabile
e l’inganno sulle scene
è una consolazione
anche se nessuno ci crede
ma la gente preferisce far finta che sia vero perché allora le cose
forse non sono tanto brutte
così il teatro del nostro tempo diventa un luogo di frode
e travisamento
quel che succede lì è inganno per il ceto medio e l’aristocrazia
cui piace essere ingannati
se vuoi vedere la verità devi essere pazzo abbastanza pazzo
da affrontare l’orrore

Questo recitava nel 1973 a New York Julian Beck, fondatore assieme a Judith Malina del Living Theatre, nello spettacolo “Sette meditazioni sul sadomasochismo politico”. E la dice lunga sull’obiettivo ultimo de “L’eredità vivente” il fatto che proprio questo testo sia stato scelto per chiudere la manifestazione, portato in scena dagli allievi di Cathy Marchand – che davanti al pubblico del Cortazár, a Pontelagoscuro, si risvegliano dal sonno profondo e narcotico in cui erano caduti, metafora dell’indifferenza e dell’atarassia in cui tutti viviamo.

«È una visione che arriva da lontano – spiega Cathy ai suoi attori -. Riguarda la capacità del teatro di trasmettere il senso della libertà, di rompere le barriere. Ci vuole tenacia, in questi tempi chiamati difficili». La determinazione al cambiamento era e resta centrale. Come dice Cora: «se il presente è impossibile, forse il futuro è possibile».

«Ci stiamo rivolgendo alle fonti, è un tentativo ma ci piacerebbe continuare anche il prossimo anno, sempre in primavera, sempre in memoria di Antonio» prosegue Horacio. Già perché l’intera operazione è stata organizzata per celebrare e ricordare Antonio Tassinari, colonna storica del Teatro Nucleo, grandissimo attore e autore, primo promotore a Ferrara del teatro comunitario, scomparso lo scorso giugno. «É stato il mio Sancho Panza per oltre vent’anni, assieme abbiamo girando le piazze del mondo. Non sarà mai facile parlarne».

Anche Cora, la sua compagna, lo ricorda in conclusione della rappresentazione, prima di salutare partecipanti e spettatori. Si commuove e chiede scusa, «sono stanca ed emozionata», anche se non ce n’è bisogno. Si rivolge infine a Cathy: «per noi il Living Theatre non è solo memoria. È stato un punto di riferimento post-adolescenziale in una situazione particolare come quella dell’Argentina degli anni Sessanta, dalla quale veniamo sia io che Horacio. Abbiamo attraversato il ‘68 assieme ai teatranti folli di Buenos Aires, guardando agli strani principi che arrivavano fino a noi da un Paese ostile, dall’America, seguendo i segnali intensi che lanciavano Julian e Judith. Apparteniamo tutti a una grande famiglia, non è una posa, siamo tutti un po’ sradicati ma ci riconosciamo nella voglia di trasformare sempre tutto, trasformare la mediocrità, i luoghi comuni, in poesia. È un’ossessione e siamo contenti di aver potuto coinvolgere in questa ossessione tanti ragazzi. Speriamo che questa esperienza abbia potuto portare un po’di luce a questa generazione, che si sta arrangiando nel buio più totale, e speriamo che tu – Cathy – possa sempre sentirti a casa in questo piccolo spazio sperduto nel mondo».

Cathy guarda Sofia, la nipotina di Cora, bionda e vivace. Anche lei ha partecipato alla rappresentazione, ha aperto la scena camminando da un lato all’altro del Cortázar, trascinandosi appresso un giocattolo, un piccolo furgoncino Volkswagen.

«Lei è il teatro?», chiede Cathy.

«Speriamo di no», risponde scherzando la mamma della bambina, Natasha.

«Come no? Abbiamo tanti problemi, di soldi soprattutto, ma siamo buoni e ci divertiamo. Non siamo cattivi, non siamo razzisti. Cosa serve di più?».

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