Si era alzato tardi ancora mezzo intontito. La notte prima aveva preso un barbiturico assieme a numerose grappe seduto al tavolino di un bar. Piccole macchie nere inquinavano la visione dei suoi ambienti familiari, una performance di action-painting stava perturbando quelle prime immagini del giorno. Fuori splendeva il forte sole di giugno. L’uomo non sopportava il confronto con quella luce violenta e volgare, la sua vita necessitava delle luci tenui ed eleganti del crepuscolo o di quelle diurne dei cieli bianchi, innocue, che non fanno aspirare a nessuna ascensione.

Massimo Fronte, che tutti chiamavano da sempre Max, era un uomo alto e magro sulla quarantina, aveva un po’di pancetta e la sua chioma castana scura marezzata di bianco incontrava più sotto due profondi occhi verdi. Faceva l’insegnante alle scuole superiori della sua città, una città che spesso era stata il palcoscenico dei suoi effervescenti racconti surreali che pubblicava una volta al mese su una piccola rivista letteraria, “La Spirale”. Il gusto originale delle sue storie era molto apprezzato dal pubblico di quella sperduta provincia.

Comincia così “Il romanzo dell’ostaggio”, noir atipico ambientato in una non meglio imprecisata cittadina padana, molto simile al capoluogo estense. Comincia così la tormentata avventura di Massimo Fronte, minacciato e forzato a diventare scrittore da un misterioso “sequestratore”, che recapita presso la sua abitazione biglietti anonimi contenenti dotte citazioni prese da Shakespeare e da Parmenide, che lo spaventa con pozze di sangue e teste mozzate di donna, che lo obbliga – in un gioco perverso di cui non si intravede il senso – a scrivere ogni giorno, per mesi e mesi, dalle 5 alle 8 di sera seduto al tavolino di un bar, affacciato sulla piazza.

Il libro – pubblicato a marzo da Koi Press – è l’opera prima di Marco Belli, ferrarese classe ’75, noto in città per l’impegno che da anni spende in campo editoriale. Marco è stato tra i fondatori, nel 2008, della casa editrice Linea Bn ed è attualmente presidente di Meme Publisher, nata nel 2013 con vocazione tutta digitale. Tra le varie e le eventuali: è stato tra gli ideatori della collana Atlantis, per la milanese Lite Editions; ha pubblicato assieme a Mihai Mircea Butcovan “Dal comunismo al consumismo. Fotosafari poetico esistenziale romeno-italiano”; assieme a Lorenzo Mazzoni “Porno Bloc” e “Io guardo Sofia”. Lo incontriamo di domenica mattina, prestissimo, in una Ferrara assonnata e biancastra.

Com’è possibile che questo sia il tuo primo romanzo?
Negli anni ho sempre lavorato per l’editoria, svolgendo tantissimi ruoli diversi. Sono stato co-autore, fotografo per copertine e inserti, editore. Ho scritto quarte di copertina e sinossi. Mancava tra tutti proprio il ruolo dell’autore. Anche se non mi sento uno scrittore. All’inizio questa storia nemmeno volevo pubblicarla.

Da dove nasce “Il romanzo dell’ostaggio”?
La storia è stato abbozzata per la prima volta a Madrid nel 2012, dopo una serata di bagordi, al tavolino di un bar di piazza Lavapiés, piazza quadrata come quella descritta nel libro. Anche se la luce in Spagna era ovviamente molto diversa da quella padana. Ci ho messo tre anni a finire questo lavoro, continuavo a fermarmi, ogni giorno mille impegni. La svolta è arrivata a seguito di un incidente stradale, che mi ha costretto a prendermi una pausa da tutto e a rimanere a letto per due settimane.

Anche tu quindi, come Massimo, sei stato obbligato a fare i conti con la pagina bianca…
Massimo è ostaggio del sequestratore ma è anche ostaggio della scrittura, e quindi di sé stesso. All’inizio si impegna perché sotto ricatto, ma col passare del tempo questo fattore perde importanza: finire il romanzo che sta scrivendo al tavolino di quel bar diventa per lui l’unica cosa che conta davvero. Non sa nemmeno perché. Da questo punto di vista si può considerare la sua storia una storia antiromantica: la scrittura non arriva dall’ispirazione ma dalla paura, dal dovere, dal condizionamento. Si rifà per certi versi all’immaginario legato a tanti scrittori classici, che si costringevano a scrivere. Penso a Vittorio Alfieri che, per non distrarsi, si faceva legare alla sedia davanti allo scrittorio dal fedele servitore Elia, oppure a Marcel Proust, rinchiuso nella propria dimora parigina, volontariamente isolato in una stanza foderata di sughero in boulevard Haussmann. Il sequestratore costringe Massimo a scrivere lo stesso romanzo che di fatto ho scritto io, è un serpente che si morde la coda, un metaromanzo, ricorda nella sua struttura l’uroboro. “Il romanzo dell’ostaggio” è un libro circolare, zeppo di simbologie alchemiche. Dovessi descriverlo con figure geometriche direi che la trama si può considerare un quadrato iscritto in un cerchio.

I bigliettini del sequestratore contengono sempre una citazione inquietante, tratta da grandissimi classici della letteratura mondiale, funzionale a suggestionare il protagonista. Oltre a questi autori, che immagino siano già tuoi forti riferimenti in ambito letterario, c’è qualcuno o qualcosa che ti ha guidato nella scrittura?
Non mi ritengo uno scrittore. Le suggestioni che ho usato per questo romanzo appartengono prevalentemente al mondo del cinema e della fotografia. Ho guardato a registi come Alfred Hitchcock e Dario Argento, a fotografi come Ghirri – che entra nella storia, seppure un po’ alla lontana. In origine il motore creativo di Massimo, come il motore di Ghirri, è la melanconia. Quando il sequestratore induce in lui la paura il cambiamento è fortissimo, come passare dal vino bianco al whisky, cosa che per altro – nelle sue lunghe soste al bar – Massimo non si trattiene dal fare.

Foto di Andrea Bighi

Massimo Fronte è l’alterego di Marco Belli?
Nel suo carattere ho estremizzato alcuni tratti del mio, tratti che non sopporto. Per esorcizzarli, per riderne. Massimo scrive racconti surreali, senza forza. In pianura non trova un vero nemico contro cui combattere, che non sia sé stesso. Brama una siepe, un colle. Si aspetta una nemesi, qualcosa contro cui combattere. Vive in una boehme confortevole, come direbbe Guccini. Ha voglia di fare fatica, la pianura trasmette solo la fatica della noia. Il dolore può paralizzare, in questo caso smuove. “Io mi sento due” dice, è inevitabile. Il libro è un percorso di ricerca del sé, narra la voglia di ricomporsi. Molte volte ha a che fare con la meraviglia. Ho letto recentemente la biografia di Dario Argento, dove si parla a lungo di teste mozzate di donna. Freud parlerebbe di elemento perturbante. La testa tagliata è quella che deve ritrovare il suo corpo. Nella vita succedono tante cose, è un continuo cercare di ricomporsi. Anche Massimo in una delle prima pagine si sente come la Venere di Milo, senza braccia.

Il lettore conosce Massimo inizialmente come uomo deluso e distrutto da una delusione d’amore, poi lo vede rincorrere col pensiero un’avventrice del suo stesso bar, donna misteriosa, simile alla Valentina di Crepax…
Lei è la ninfa, l’epifania del viandante. Lei, come tante altre comparse del libro, è un demone meridiano. Come Mario, l’alcolizzato, un oracolo. Di fatto ho scritto un noir diurno, mi piaceva l’idea di riuscire a trasmettere inquietudine ambientando i fatti alla luce del sole, per quanto pallido e padano.

I prossimi appunti per conoscere “Il romanzo dell’ostaggio”?
Organizzeremo prossimamente due presentazioni, una il 2 luglio a Loreo – in provincia di Rovigo – per la manifestazione “L’ora d’aria”, una all’isola d’Elba per il festival dell’editoria indipendente, Elbabook.

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