Carlo Rosa ha 35 anni, è ricercatore universitario in epistemologia della conoscenza, e vive a Ciudad Obregon, Sonora, Messico.

Quando sei emigrato?
Sono emigrato nel 2011, con una laurea in scienze dell’educazione e un dottorato in pedagogia generale e sociale. Terminato il dottorato, la mia relatrice mi ha invitato ad accompagnarla in un viaggio di ricerca a Oaxaca, nel sud del Messico. Lì, durante una conferenza, ho conosciuto un professore che lavora alla UAM – una delle università pubbliche di Città del Messico – il quale mi ha informato della possibilità di collaborare ad un progetto di ricerca, usufruendo di una borsa di post-dottorato di un anno. In un afoso pomeriggio oaxaqueño, con l’aiuto di qualche bicchiere di mezcal, ho scritto la mia parte di progetto e ho inviato i documenti necessari per partecipare al concorso. Tornato a Ferrara, dopo un paio di mesi, ho ricevuto la risposta dell’università: sarei dovuto ripartire prima possibile per il Messico. Pensavo che si trattasse di preparare lo zaino, più che le valigie, per fare ritorno a Ferrara dopo un anno, con la memoria della macchina fotografica piena di paesaggi e di volti esotici, ma non è andata proprio così. Dopo qualche mese di lavoro, mi hanno chiesto di rinnovare il potsdoc. E un venerdì sera ho conosciuto Liliana. Così, a meno di un anno dalla mia partenza, la mia vita era stravolta: mi avevano rinnovato la borsa, mi ero innamorato, e di lì a poco sarebbe arrivata anche Adela, che non è una bimba ma un pastore tedesco.

Terminato il secondo anno di postdoc, mi sono dedicato un po’ alla musica e alle feste (che a Città del Messico non mancano), con due cari amici che mi sono venuti a trovare da Ferrara. Alla loro partenza non avevo più un soldo e non riuscivo a trovare un buon lavoro. Quindi ho pensato: “perché non inizio a vendere cappelletti?” Così, con l’aiuto della mamma e della nonna, via Skype, io e Liliana abbiamo preparato i nostri primi cappelletti e ravioli messicani. Non è stato facile seguire la ricetta originale perché alcuni ingredienti, qui, non si trovano, ma anche con qualche variante il risultato è stato buono. Li ho regalati agli amici, e dopo una settimana avevo già altre richieste.

Insieme ad un amico tedesco che vendeva wurstel bavaresi, avevo trovato un piccolo spazio nel mercato del quartiere dove vivevo. Avevo disegnato le etichette per i cappelletti, e trovato il nome: Il cappelletto rosa. Poi, quando era già tutto pronto per la vendita, mi è arrivata una bellissima notizia: avevo ottenuto una cattedra come ricercatore. Così, dopo qualche mese mi sono trasferito a Ciudad Obregon, nello stato del Sonora, nel nord del Messico, dove vivo attualmente. Si trova tra il mare, il deserto e le montagne.

Cosa facevi prima? Cosa fai ora?
Prima di partire lavoravo come educatore in varie scuole della provincia e, a titolo gratuito collaboravo con l’università di Ferrara. Inoltre, suonavo. Non era un vero e proprio lavoro, ma la musica è sempre stata una parte molto importante della mia vita. Suonavo con i Don Vito e i Veleno, con i Let’s Get Lost (sono sicuro che qualche ferrarese si ricorda di questi gruppi), e avevo appena iniziato un nuovo progetto musicale (CarloRosa e Le Spine, qui il canale Youtube con i brani di La modernità è finita, ndr – http://www.youtube.com/user/CarloRosaeLeSpine).

E’ stato difficile abbandonare la musica.

Cosa ti manca?
Gli amici, la famiglia, la musica, e visto che questa intervista gira intorno al cibo, e che io adoro mangiare bene, mi mancano molto i piatti tipici della nostra terra: in particolare i cappellacci e le ricciole di pane. Naturalmente mi manca il vino, anche se devo dire che quello della Baja California non è per niente male.

In senso più generale, anche se spesso mi lamento di come vanno le cose in Italia, mi manca la sua bellezza e la sua cultura.

Cos’hai trovato?
Una cultura altrettanto bella, complessa e contradditoria, l’amore, un nuovo me stesso, il lavoro, tanta umanità e purtroppo tanta inumanità, nuovi amici, e un constante senso di nostalgia.

Che cosa mangi questa domenica?
La domenica, in genere mangio il pesce, lo preparo al forno, all’italiana: con l’aglio, i pomodorini, il prezzemolo, le olive e i capperi. Oppure con la pasta, adoro gli spaghetti con le cozze, le vongole e i gamberi… una specie di scoglio. Ma questa domenica abbiamo preparato la pizza, seguendo la ricetta pugliese di mio padre, ti mostro qualche foto.

Devo dire che la cucina da queste parti è ottima, e anche se da un po’ di tempo cerco di evitare la carne, devo ammettere di non aver mai provato una carne così buona… è uno dei vanti della regione. E poi il pesce, il Mar de Cortez, è uno dei mari più popolati di specie marine nel mondo, ed è per questo, che da dicembre ad aprile, si possono incontrare le balene che emigrano da sud a nord dell’oceano pacifico.

Come trascorri questa domenica?
Sono appena tornato da una visita alla tribù Yaqui, che è una delle popolazioni autoctone più importanti del Messico. Per intenderci, sono quelli descritti nei libri di Castaneda, o quelli della visione sciamanica di Jim Morrison. Vivono nello stato del Sonora, e in quello dell’Arizona, negli Stati Uniti. Sto raccogliendo del materiale etnografico per un progetto dell’Università di Ferrara. E’ un progetto etno-pedagogico, per studiare come gli Yaqui trasmettono e costruiscono la conoscenza attraverso i racconti orali.

Me ne occupo nel tempo libero, durante il week end, perché in realtà all’università mi occupo di altro, un progetto sullo sviluppo del capitale intellettuale per la crescita delle imprese nella città.

Domenica scorsa sono stato a visitare una curandera, una sorta di dottoressa del pueblo. Non è una vera e propria dottoressa, perché non ha mai studiato medicina, ma dice di curare con lo spirito dei suoi maestri che la guidano nel sonno. Durante il sogno, il suo spirito si doppia dal corpo per fare visita ai malati e curarli. Mentre la aspettavo, ho conosciuto una persona che veniva da molto lontano per farsi curare. Mi ha raccontato cose che hanno dell’incredibile. Suona folle, lo so, ma questo misticismo fa parte della loro cultura, ed è molto interessante studiarlo, e anche se può sembrare magia, è pur sempre una forma di cura e di conoscenza per chi ha fede, naturalmente (come dice la curandera).

A metà pomeriggio sono dovuto scappare per via della temperatura, che oggi ha raggiunto i 43 gradi. A volte mi chiedo cosa abbia spinto i primi gruppi di uomini a stabilirsi in questo posto desertico, dove, per almeno 5 mesi all’anno, l’aria condizionata è una necessità primaria. E a volte mi chiedo cosa ci faccia io, qui.

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