In fondo si tratta di capirsi. Stabilire un linguaggio comune, fatto di parole, grammatica, carne e sangue. Mettersi d’accordo sui principi basilari. E poi fidarsi. Ecco, così come anche la migliore torta, per riuscire, non può basarsi solo sulla qualità degli ingredienti, ma l’intero risultato dipende inesorabilmente dal momento dell’impasto finale, così tra gli esseri umani per capirsi bisogna vedere che cosa salta fuori mettendo assieme tutte queste componenti: basta che la finestra della cucina sia leggermente aperta, mentre impastiamo, ed ecco che la torta sarà di una temperatura troppo bassa, appena un grado, e verrà male. Basta che quella sera siamo tornati a casa troppo nervosi, ed ecco che impasteremo con troppa foga, e la torta risulterà un po’ tirata via. Le persone sono torte in divenire, in fondo, che si mettono d’accordo su un linguaggio e poi vengono impastate sperando che vada tutto bene. La maggior parte delle volte, ovviamente, non è così, e si lascia la torta sul davanzale della finestra in cucina, e il primo gatto dei vicini che passa le rifila un morso o una zampata. Ho abbastanza anni da aver imparato un po’ a conoscere le persone, e l’amore e i sentimenti e le sensazioni, ma, come l’ingrediente segreto che non vuole rivelarsi, sulla lista della spesa c’è sempre una cosa che non riesco ad acquistare, e si chiama fiducia.

Se ci chiedono così, a bruciapelo, cosa sia la fiducia, tutti sappiamo rispondere, il difficile viene quando bisogna spiegarla. Fiducia è quella parola così inafferrabile perché sottende tutto un mondo: è come l’azoto nell’aria, invisibile ma preponderante, nei rapporti umani. Le coppie, gli amici, la famiglia: tutti respiriamo azoto, mentre l’amore è l’ossigeno e l’odio è l’anidride carbonica. Eppure nessuno di noi ha mai visto l’azoto. Esiste davvero? Sono i misteri della natura umana, traslati poi nel nostro linguaggio: sono quelle parole di cui puoi anche arrivare a darne una definizione, ma non abbraccerà mai completamente il senso. In dialetto ce ne sono migliaia, di parole così, che dicono tutto senza spiegare nulla (o viceversa), e più si scende verso il sud Italia, più se ne trovano. Per esempio, prendete la famigerata cazzimma: chiedete a un napoletano di spiegarvi cosa sia, e riuscirete (incredibilmente) a metterlo in difficoltà. La fiducia è uguale: è come la cazzimma, esiste, tutti sanno cosa sia, ma pochi riescono a spiegarvela davvero. Di più: pochi riescono a renderla concreta. Un giorno mi sono messo d’impegno e ho provato a chiedere a diversi napoletani di costruire un’immagine della cazzimma. Vuoto totale. Tentativi, ecco, al massimo. La cazzimma è l’abilità di fotterti senza che tu te ne accorga? No, non esattamente. E’ tipo quando piove che viene giù fine fine, che non serve l’ombrello, ma ti bagni lo stesso. La cazzimma c’è, non si vede, ma si sente. La fiducia, allora, non sarà fatta della stessa sostanza della cazzimma e di tutte quelle meravigliose parole dialettali che ci sono, si sentono, ma non si vedono? Solo tentativi, come sempre.

Non so voi, io per la mancanza di fiducia ci ho perso due o tre vite, e ora non so più quante me ne rimangano. Hai voglia a dire che c’è ma non si vede. Si sentono gli effetti, della fiducia, e solo quando viene a mancare: perché quando c’è, respiriamo, come sempre, e ci sembra la cosa più scontata del mondo. Invece è tutto il contrario: la fiducia è il nastro adesivo che tiene in piedi il flusso delle nostre esistenze, e quando si strappa, il flusso inizia a pendere, a deviare verso l’alto verso il basso verso ovunque, come un grafico impazzito, uscendo dai binari. E’ la materia oscura che spiega la relatività, la sua assenza giustifica il proliferare di mondi paralleli: al Cern non cercano i neutrini, ma la fiducia. Che sarebbe come cercare la cazzimma: piove senza bagnarti, ti fidi senza crederci. Suona molto come un imbroglio, una truffa quasi mistica (da fiducia a fede la contrazione è un attimo), un vedo / non vedo dell’esistenza che, a differenza dell’azoto, puzza un bel po’. Così mi sono chiesto come mai non avessero ancora inscatolato la fiducia, liofilizzata in bustine da prendere come il Fluimucil d’inverno, tre volte al giorno, prima o dopo i pasti non fa differenza. Un’app per la fiducia? Un Fiduciometro, per dire: io ti appoggio il telefonino sul petto e dai battiti capisco se posso fidarmi di te. Se la freccia supera la soglia, allora potrò amarti, fondare una società assieme, farti rientrare la sera tardi. Invece, niente. Perché non insegnarla magari dopo pilates, allora? Ti insegno a respirare, ti faccio inarcare la schiena sopra la palla medica, e mentre sei a testa giù, con il sangue alla testa, ti guardo negli occhi e da lì intuisco se possiamo fare figli insieme, se mi hai tradito, se non rivelerai mai il nostro segreto industriale. Se ci pensate, l’intera esistenza umana, riducendola all’osso, si basa interamente su questo elemento invisibile che regola qualsiasi rapporto umano. Noi saliamo su un aereo fidandoci del pilota, del suo umore, del fatto che non vorrà schiantarsi così come non lo vogliamo noi. E infatti. Noi decidiamo di convivere, di cambiare lavoro, di trasferirci perché ci fidiamo riguardo al fatto che l’altra persona con cui conviviamo, con cui cambieremo città, voglia la stessa identica cosa, e soprattutto che mantenga questo proposito per lo stesso arco di tempo in cui lo manterremo noi: non un minuto di meno, non un minuto di più. Intere vite, intere civiltà, sono regolate da questa magia invisibile, questa divinità immanente che ci consente di fare cose imponderabili come guardare sei stagioni intere di Lost (perché ci fidiamo che gli sceneggiatori compiano il loro dovere). Eppure ad un tratto finisce, il meccanismo si inceppa, noi saltiamo per aria. Possibile che non sia in vendita da nessuna parte?

Decido così di affidarmi ai professionisti della fiducia. Di provare a capire se questa sostanza sia in qualche modo replicabile artificialmente, sia maneggiabile, rivendibile. Così penso che l’investigatore privato sia un’approssimazione di un rivenditore di fiducia. Un aggiustatore (o un sabotatore?) delle diatribe umane: è come il tecnico che fa il tagliando alla caldaia dei nostri rapporti interpersonali. Di lui ci fidiamo, infatti, quando entra in punta di piedi nel nostro bagno, apre lo sportellino della caldaia, inizia ad armeggiare con la sua strumentazione, e poi ci dà un foglio che certifica che sì, siamo in regola. Lo stesso fanno le agenzie investigative sulle nostre miserie umane: arrivano in punta di piedi, cercano le prove di quello che temevamo (o speravamo), ci danno un dannato foglio di carta in mano che ci dice come stanno le cose. Senza ambiguità. E sono pagati per farlo, li paghiamo volentieri così come paghiamo volentieri il tecnico della caldaia perché di notte, in fondo, vogliamo dormire con gli occhi chiusi. Riuscirò a spogliare di tutto l’immaginario retorico e tecnologico la figura dell’investigatore privato? Le domande, del resto, di solito è abituato a farle lui.

Ecco, quando entro nell’ufficio di Matteo Benea, dell’agenzia investigativa Top Secret di Ferrara, tutto questo papiro sulla fiducia non ce l’ho ancora in testa. Decido così di prenderla molto alla larga. Non vorrò mica mettermi a parlare di fiducia con uno sconosciuto? Così gli chiedo, adeguandomi allo stile asciutto e rigoroso di Matteo, di parlarmi semplicemente del suo lavoro, ripulendolo, magari, da tutte quelle leggende che offuscano la figura dell’investigatore privato. Anche se durante l’intervista spunteranno telecamere nascoste dentro un orologio, non siamo su un set cinematografico, e il lavoro di Matteo è maledettamente serio. «Ho iniziato questo lavoro nel 2009, volevo fare carriera come ufficiale dei Carabinieri, poi ho avuto l’occasione di conoscere questo mondo delle investigazioni: grazie al titolare Matteo Mazzoni, in poco tempo mi sono formato professionalmente e ho preso la licenza di investigatore privato». Lo interrompo: serve una licenza, per indagare sulle vite delle persone? «Prima della nuova normativa del 2010 era un mondo anarchico, con compiti confusi, senza una vera legislazione, e infatti giravano nell’ambiente tanti imbroglioni. Oggi invece ci sono norme più definite, e gli avvocati nei processi iniziano ad affidarsi anche a noi per le indagini difensive».

Top Secret è un nome che svela anche fin troppo, per essere un’agenzia di investigazioni (ma non solo: si occupa anche di vigilanza e sicurezza), un paradosso ironico che girando per gli uffici della sede ferrarese non si avverte. Sono tutti molto distesi, e posati, gli ambienti sono arredati con stile sobrio, e posato. Sembra sia rilassante, quasi, fare investigazioni. Di che cosa vi occupate? «Non riusciamo a coprire tutti i possibili settori di indagine, diciamo che il 70% dei casi riguarda infedeltà coniugali. Forse per colpa della crisi, poi, sono in aumento anche le richieste da parte delle aziende di controllare i dipendenti, per casi di concorrenza sleale o per stanare persone in finta malattia, oppure bar che chiedono di controllare gli addetti alle casse perché si prendono parte dell’incasso di giornata. La Corte di Cassazione ha riconosciuto la liceità dell’intervento da parte di un’agenzia investigativa con telecamere occulte in occasione di un’indagine su un cassiere: qualora il dipendente crea danno all’azienda, quei filmati prodotti hanno valore come prova in sede di processo».

Ok, penso, questi sono gli aspetti più formali e le conseguenze legali del vostro lavoro. Ma come si mettono insieme i cocci della fiducia? Com’è il tuo lavoro? «Si tratta soprattutto di girare, girare ovunque, e perdere anche molto tempo. Non mi pesa andarmene in giro per l’Italia, ogni caso non sai mai all’inizio dove ti trascinerà, puoi finire in Sicilia o a Bolzano. Molti casi iniziano qui in zona e si evolvono poi in altre regioni, o anche il contrario. E non sono solo a svolgere il mio lavoro: l’investigatore privato detiene la licenza, ma possiamo avere collaboratori per svolgere poi le indagini sul campo, che prevedono pedinamenti, raccolta prove, e tanto altro».

C’è poi un aspetto tutto tecnico che sfocia nel ludico (visto da fuori), popolato da una serie infinita di adorabili gadget tecnologici. Non resisto e gli chiedo quanto ci sia di leggendario riguardo agli aggeggi che un investigatore privato si porta con sé: «Il nostro lavoro dipende tantissimo dalla tecnologia, devo essere bravo in informatica, a produrre documenti audiovisivi, a fare editing video, ad armeggiare con lo smartphone». Finalmente tira fuori dal cilindro qualche diavoleria: l’orologio con la microcamera nascosta, la famigerata penna che fa video, fino ad arrivare ai rilevatori satellitari di movimento. Ci mostra una scatoletta poco più grande di due pacchetti di sigarette, con dei magneti alla base: dentro, c’è un rilevatore gps di posizione, che si collega con un’applicazione del suo smartphone e gli indica in tempo reale lo spostamento dell’auto sotto controllo. Fare gli inseguimenti diventa così quasi un videogioco, agevolati dalla mappa che indica con un ritardo di pochi minuti in che punto si trova l’auto da monitorare. «Sono strumenti molto validi e costosi, hanno una batteria interna, e non è nemmeno facile attaccarli sotto alla vettura: hai pochissimo tempo per piazzarli, di notte peraltro. Mi è anche capitato di non agganciarli bene e di ritrovarmeli rotti a bordo strada, ma ci sono situazioni nel mio lavoro in cui non hai molto tempo e non puoi permetterti di non agire, altrimenti perdi l’attimo. Posso scaricare il tracciato, riguardarmelo su Google Street View, risparmiando benzina e tempo e cercando di capire con il cliente se la persona osservata si è fermata in un luogo che possa essere significativo o meno per l’indagine». Poi tira fuori una macchina fotografica che fa 60 scatti al secondo, grazie all’otturatore elettronico: «per noi il tempo è cruciale, mi capita di stare appostato anche per dieci ore di fila, se la persona che sto seguendo esce e io non sono pronto o lo scatto non viene, ho buttato a mare ore di lavoro. Quando faccio i corsi ai futuri investigatori, la prima cosa che ricordo sempre è la Legge di Murphy: il secondo in cui abbassi lo sguardo è esattamente il secondo che ti serviva per raccogliere la prova».

Matteo è lucido e determinato, nell’espormi il suo lavoro da investigatore privato. Questa faccenda delle indagini e della fiducia sembra essere molto seria, e mi sembra di iniziare a intuire quale possa essere uno dei possibili segreti per sfornare una torta decente. «Lavoriamo quasi sempre in coppia, durante i pedinamenti, per avere un supporto pratico: due persone ferme in un auto danno meno sospetti che una sola. E se ho bisogno di andare in bagno o di un caffè, c’è l’altro a coprirmi. Produciamo poi una relazione finale, corredata da fotografie e video: ho una mente molto analitica, mi annoto tutto meticolosamente, orario, fatto, descrizione dell’accaduto. Tutto supportato da materiale audiovisivo». Una mente analitica, dice. La maggior parte dei casi «si dimostrano fondati: diciamo che nel 98% delle indagini, il presentimento iniziale del mio cliente sussiste poi davvero». Uno strato di mente analitica, e un pizzico di famigerato sesto senso?

Ferrara come città non sembrerebbe così fertile per casi di investigazione privata, e invece oltre a Top Secret ci sono tante altre agenzie. Come sono i clienti ferraresi? «Non noto particolari differenze rispetto ad altre città, le casistiche sono più o meno quelle. Abbiamo qualche richiesta per controllare i figli, sia minorenni che universitari, per esempio quelli fuori sede, finiti altrove e magari lontano da casa non studiano e gozzovigliano, e allora i genitori vogliono vederci chiaro. Vedi, oltre a essere un giurista e un informatico, il nostro mestiere prevede anche dosi robuste di psicologia: sia quando arriva il cliente in ufficio la prima volta, sia quando consegno la relazione. Arriva con delle aspettative di un certo tipo, riguardo a cosa è possibile fare con le prove raccolte, che vanno invece indirizzate alla realtà. E ovviamente quando i sospetti vengono provati, c’è sempre da tenere conto della reazione. Il nostro cliente tipico ha più di trent’anni, mediamente, sia uomini che donne: persone che hanno già un reddito, perché comunque un’indagine ha il suo prezzo, e cercano prove per tutelare i propri interessi, dal patrimonio aziendale ai figli. Le prove che forniamo diventano sempre più utili, per esempio, nelle cause di separazione. Il mio consiglio è di non andare mai dal coniuge sventolando le prove: fate vedere qualcosa, ma non tutto, il resto strada facendo. Tra le varie richieste, abbiamo anche persone già separate che hanno bisogno di dimostrare che l’ex compagno/a ha cambiato tenore di vita, e quindi allora gli alimenti da pagare vanno ricalibrati».

Foto di Sandro Chiozzi

«Internet ci aiuta tantissimo, non tanto sul tracciamento (chi fa cose di nascosto si nasconde), ma per capire che posti che frequenta, che amici ha, che tipo è. È una risorsa importante specie quando vado a lavorare fuori città, dai “mi piace” riesco a capire un po’ delle sue frequentazioni, vedo chi commenta: contestualizza la persona, e molti lo usano in modo massivo, senza la privacy, pubblicando davvero troppo. Poi chi viene qui ha paura che si sappia in giro che si sia rivolto a un investigatore, quindi la riservatezza è il nostro dogma. A parte compilare un contratto di mandato e registrarlo sul registro degli affari, altro non teniamo».

C’è mai qualcuno che vi chiede di spingervi oltre i limiti? «Si pensa che questo sia un mestiere molto avventuroso. In realtà ci sono limiti legislativi importanti. Anche l’idea di mettere una cimice in camera di letto… non si può fare, è violazione di proprietà privata. Nemmeno se è il cliente ad aprirmi la sua porta di casa: sarebbe comunque interferenza illecita nella vita privata, secondo il codice penale. Così suggerisco sempre di trovare una strada alternativa, dove quello che acquisiamo possa poi essere utilizzato. Secondo il codice penale, l’investigatore privato può acquisire materiale audiovisivo e seguire la persona con mezzi elettronici, quindi legalizza rilevatori gps. Le intercettazioni telefoniche sono invece bandite. Esiste poi un mondo legale fatto di escamotage: per esempio, i software antifurto in vendita, che si installano nel telefono e io con un altro telefono pilota ho modo di verificare a mio comando che cosa succede. Io ti dico che c’è questa possibilità, ma lascio che sia il cliente ad agire, in questo caso l’utilizzo che ne fa è di sua responsabilità. La bravura del nostro mestiere consiste nell’ottenere le stesse cose con la pura attività investigativa pura, e di solito i clienti si lasciano convincere da questo approccio».

I modi (oltre alle parole) sono importanti, insomma, nella ricerca della verità. E solo rispettando la legge si possono produrre prove efficaci: «se io sono in strada e tu su un balcone posso fare foto con obiettivi che corrispondono all’ottica dell’occhio umano, quello che vedo a occhio nudo è pubblico. Quindi, per dire, le foto dei paparazzi nelle ville dei vip non sono legali, così come non si possono usare droni o zoom. Se la persona è in domicilio o in luoghi di privata dimora (barca sì, macchina no), posso documentarla solo se visibile all’occhio umano».

Uno dei rischi dell’investigatore privato è quello di essere scoperto. Ti è mai capitato? «Il rischio c’è sempre, a volte è successo e in quei casi l’indagine va bloccata, altrimenti diventa molestia. In campagna la probabilità aumenta, quando sei appostato in auto, in città ci cammuffiamo meglio, il contesto urbano ti confonde molto di più. Con i rilevatori gps poi possiamo anche stare a distanza di sicurezza, prima invece dovevo stare attaccato alla macchina da inseguire, in certi casi anche per centinaia di chilometri: il trucco era avere sempre un’altra macchina estranea in mezzo. Mi sono capitati inseguimenti iniziati così, d’improvviso, senza sapere dove sarei finito: quindi parto sempre col pieno di benzina, acqua, qualcosa da mangiare».

Controllo la lista della spesa, intanto, e direi che ho quasi tutto. Cosa manca? Ah sì, la questione del coinvolgimento emotivo, quella cosa per cui ad un certo punto nei rapporti arriva il sangue alla testa e l’impasto impazzisce. Ti capita mai di essere coinvolto, nei casi che segui? «Emotivamente no, mai, siamo dei professionisti obiettivi. Però è capitato più di una volta di dover trasformare l’indagine in un servizio di “sicurezza”, diciamo. Per esempio, in casi eccezionali il cliente non vuole la prova documentale, vuole solo sapere l’identità dell’amante, ed essere presente al momento della scoperta. Allora io cerco di capire che tipo di persona è, non voglio creare situazioni burrascose, quando sono sicuro che non farà stragi, cerco comunque di sviarla, dal proposito. Se però il cliente quello vuole, e si può fare, allora lo faccio arrivare, facendolo accompagnare da amico/a, e la situazione viene gestita nel modo più civile possibile. In quei momenti per loro entrano in campo i sentimenti, la rabbia, a volte mi hanno chiesto di rimanere lì comunque, e io assistevo alle diatribe nelle retrovie. Magari aspettavo sotto casa, oppure ero presente a fianco del cliente per controllare un’eventuale sua reazione violenta… mi presentavo come “un amico”».

«Nel mio lavoro non c’è mai un’investigazione uguale all’altra, anche se molte volte i motivi che spingono le persone a rivolgersi a noi sono gli stessi: ogni persona fa storia a sé, ogni volta bisogna pensare a una strategia che si adatti a un contesto diverso, quello che mi gratifica è vedere la soddisfazione del cliente al termine del lavoro. In fondo, sono persone che hanno bisogno di aiuto, e il mio lavoro altro non fa che fornire loro strumenti per chiarire dei dubbi. Quando si siedono di fronte alla mia scrivania, iniziano a parlare di cose che forse nemmeno direbbero al migliore amico o a uno psicologo, forse perché in me riconoscono una persona terza, estranea alle loro vicende, neutra, e quindi disposta ad ascoltarla senza preconcetti e che soprattutto riuscirà a dare una mano concreta per risolvere il loro problema. Ho quattro telefoni – me li mostra, ndr -, sono sempre accesi, 24 ore su 24: li cliente può chiamarmi anche di notte, e io rispondo sempre».

Qualche tempo dopo questa intervista, mi è capitato di finire in un bar di Ferrara in cui non ero mai stato. Sul bancone, c’era esposto un cartello colorato, che recitava “Caffè sospesi: 1”. I caffè sospesi sono quei caffè che vengono pagati, in più, e lasciati a chi verrà dopo di noi, in sospeso, appunto. Una cosa che ho visto soltanto a Napoli, la città, guarda un po’, della cazzimma. Così, vincendo la mia ritrosia tutta ferrarese a parlare con gli sconosciuti, azzardo un approccio col barista: «Lei è di Napoli, vero?». Lui annuisce. Io insisto: «L’ho vista soltanto a Napoli, finora, questa cosa dei caffè sospesi». Mi spiega che alcuni suoi amici gli hanno consigliato di proporla anche qui, al nord. «E come hanno reagito, i ferraresi?», chiedo, e lui annuisce flebile: «mh, hanno reagito». Punto. Prendo un caffè, senza approfittare di quello sospeso, senza lasciarne un altro a mia volta. Questa cosa che tutto si mescola, tra città diverse, e dialetti diversi, che si possa dire una cosa per intenderne un’altra, che non si possa spiegare una cosa, nemmeno con le parole della propria terra, ecco, mi impedisce di arrivare all’ingrediente finale della faccenda. Sembrava tutto così asettico, là dentro l’agenzia investigativa, alla scrivania con Matteo. Tutto così lineare e messo in fila per bene: servono mente analitica, sesto senso, e qualcuno che ti ascolta, per scoprire la verità. A me invece, non so bene perché, viene soltanto da annuire. Vatti a fidare.

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