(segue da prima parte e seconda parte)

Un Petrolchimico non è mai qualcosa di popolare. Eppure l’operaio e la chimica intervistati scacciano le nostre paure come una zanzara inutile. La loro esperienza è chiara: l’impianto è super protetto e il calo delle emissioni inquinanti è radicale. È ora di sentire qualche altra campana. Abbiamo chiesto a Sergio Golinelli, ex Assessore dell’Ambiente alla fine degli anni ’90 e a Giuliano Guietti, ex segretario della Camera del Lavoro, di parlarci delle loro battaglie contro le emissioni inquinanti e di cosa vedono nel prossimo futuro. Il Petrolchimico è davvero un luogo iperprotetto? Quali sono i rischi reale per la salute? Esiste un’alternativa?

Sergio Golinelli, ex rappresentante dei Verdi e ex Assessore all’Ambiente alla fine degli anni ’90, insegna storia e italiano ai futuri chimici dell’ITI. Il Petrolchimico evoca i consigli di fabbrica, il simbolo delle lotte operaie.

Che tipo d’impianto è il Petrolchimico?

La zona industriale nasce nel ’37 come primo impianto di gomma sintetica. Dopo la guerra entra in scena la Montecatini, che diventa poi Montedison. All’interno ci sono diverse aziende. La più grossa è Lyondell Basell, poi c’è Yara, che produce fertilizzanti, probabilmente l’impianto più pericoloso a causa dello stoccaggio per l’ammoniaca, è quello che comporta il rischio maggiore. C’è l’Enichem che produce plastica e gomma ed Enipower, che gestisce la cosidetta Turbogas per la produzione di energia elettrica: un impianto a ciclo combinato a metano. Solo per nominare le più importanti. Il rischio è la mancanza di gestione unitaria. Per fortuna è nata in seguito l’IFM, un’azienda che gestisce i servizi comuni. Non è uno stabilimento monosocietario ma di più società.

Cosa mi sai dire dell’impatto ambientale?

L’inquinamento ovviamente c’è ed è dovuto alle emissioni dei vari cicli produttivi. La famosa fiamma della Yara disperde ossido di azoto, precursore delle polvere sottili, e idrogeno. L’attenzione per ridurre l’impatto ambientale, però, è cresciuta nel corso degli anni. Le aziende hanno investito in sicurezza, come il depuratore delle acque. Le certificazioni di sistema di gestione per la riduzione progressiva dell’impatto sull’ambiente ne sono un simbolo. C’erano più episodi critici un tempo. Di certo non possiamo confrontare le due realtà industriali, quella degli anni ‘50 e quella di oggi.

E della questione Barco?

Quello di Barco e di Pontelagoscuro sono tipici quartieri operai, il secondo in stile Ottocento. La Montecatini costruì queste case per gli operai venuti dalle miniere di zolfo delle Marche e della Romagna. Di sicuro non è salutare abitarci ma non è che il problema sia circoscritto lì.

Ha senso parlare di crisi per il Petrolchimico?

Il settore ha tenuto più di altri. Certo è che negli anni ’60 – ’70 si contavano anche cinquemila dipendenti, ora saremo a duemila.

Come si può ridurre l’impatto ambientale?

E’ possibile ridurre l’impatto ambientale stabilizzandolo anche dal punto di vista occupazionale, eliminare punti di criticità sostituendo i vecchi impianti inquinanti, come abbiamo fatto in passato. Certo, c’è chi dice che va chiuso e chi dice “mandiamolo nei Paesi Arabi”. Però anche gli arabi respirano.

Durante il tuo impegno come Assessore, che obiettivi avete raggiunto?

Il Sindaco dell’epoca, Gaetano Sateriale, era molto attivo. Il sindacato di allora partecipò alla stesura di “Accordi di Programma”, che ho seguito personalmente in collaborazione con il Comune, la Provincia e la Regione Emilia. Erano accordi che chiedevano princìpi di garanzie e compromessi, come la riduzione progressiva di sostanze inquinanti. In un certo senso bisogna credere in una contraddizione: mantenere lo stabilimento aperto e renderlo il meno inquinante possibile. Gli Accordi di Programma prevedevano anche il coinvolgimento dei cittadini sul modello del Petrolchimico di Rotterdam, con un Consiglio condiviso formato da rappresentanti cittadini e dell’azienda. Non se ne fece mai niente. Abbiamo fatto chiudere un inceneritore pericoloso che bruciava 28 mila tonnellate di scarti pericolosi all’anno.

Cos’è cambiato negli ultimi anni nella vita pubblica?

La questione ambientale sembra passata in secondo piano, forse per la disoccupazione. Sembra scomparso l’interesse dei cittadini. Fino al 2008-2009 se ne parlava, ora se ne parla solo in senso stantio e stereotipato. Ad esempio quando si parlò della centrale turbogas (quella con le ciminiere basse, bianche e rosse verso Padova) che era prevista al posto della vecchia centrale, la gente si è lasciata andare a visioni apocalittiche. Il cielo si colorerà di rosso, dicevano. Invece le emissioni sono al di sotto della vecchia.

Nel 2005 un’azienda presentò un progetto per realizzare un impianto per la produzione di silicio per investire in pannelli solari ma poi, con l’esplodere della crisi, cambiò idea. Peccato, la grande occasione per riconvertire il Petrolchimico è sfumata.

* * *

Giuliano Guietti, dal 1989 al 1994 è stato segretario provinciale Filcea (il sindacato dei chimici Cgil), fino al 1999 segretario regionale, fino al 2004 in segreteria nazionale, dal 2005 al 2013 segretario della Camera del Lavoro di Ferrara, attualmente è presidente dell’Istituto di ricerca regionale della Cgil (Ires Emilia-Romagna).

Parliamo ancora di sicurezza. L’impianto è davvero protetto?

Per un Petrolchimico la questione sicurezza non può mai essere sottovalutata, qualche margine di rischio esiste sempre. Però gli intervistati hanno ragione, anch’io penso che il livello di attenzione che attualmente caratterizza la gestione di un Petrolchimico come quello di Ferrara renda minimo il rischio di incidenti rilevanti.

Si parla molto della situazione sanitaria a Barco e dell’incidenza dei tumori. Quali sono davvero i rischi per la salute?

I rischi per la salute derivano essenzialmente dalle emissioni atmosferiche, tema sul quale si è sviluppata negli ultimi decenni una sensibilità molto maggiore che in passato. Questo è avvenuto grazie all’azione di diversi soggetti. Ha contato sicuramente molto la pressione di gruppi esterni che, a prescindere dalla fondatezza delle loro argomentazioni, hanno indotto i media locali a dedicare, giustamente, molto spazio a questa tematica. Ma ha contato molto anche l’azione del sindacato e l’attività dei suoi delegati dentro il Petrolchimico, che anzi ha per molti aspetti anticipato l’opinione pubblica.

Ovvio che il mio è il punto di vista di chi ha svolto attività sindacale per molti anni nell’ambito della chimica, ma è un fatto che già negli anni ’80, e ancor di più in quelli successivi, diverse iniziative del sindacato e alcuni accordi sottoscritti con le aziende del Petrolchimico hanno riguardato in specifico la riduzione delle emissioni.

Oggi il quadro è molto, molto diverso da quello di trenta o anche solo venti anni fa. Le sostanze più nocive, quelle che possono avere incidenza diretta sulle malattie oncologiche, a Ferrara non vengono nemmeno più trattate. Le altre emissioni, tramite massicci investimenti tecnologici, realizzati anche attraverso precisi accordi di programma tra aziende, istituzioni e sindacato sono state fortemente ridotte. Inoltre oggi esiste un sistema di monitoraggio delle emissioni che permette alle autorità preposte di tenere costantemente sotto controllo la concentrazione delle principali sostanze.

Purtroppo l’incidenza dei tumori nella nostra città rimane più elevata della media, ma non mi risulta né che Ferrara sia la capitale nazionale del tumore come qualcuno ha cercato di descriverla, né che al Barco questa incidenza sia più elevata che nel resto della città.

Si parla di crisi anche in questo settore. Il quadrilatero padano di industrie chimiche parla chiaro: quello di Ravenna è stato ridimensionato e quello di Marghera pare sia in fase di smantellamento. E a Ferrara?

Quello che preoccupa è soprattutto l’evidente assenza di strategie industriali da parte dei Governi centrali, oltre che la debolezza e fragilità dei piani delle aziende. Niente di nuovo, purtroppo, per il nostro Paese. Però è un’assenza i cui effetti si cumulano nel tempo e finirà, se non rimediata, per mettere in grave difficoltà la sopravvivenza non solo del Petrolchimico di Ferrara, ma di gran parte del sistema produttivo industriale del nord Italia.

Emblematiche le ultime vicende. Eni, dopo avere per molto tempo smentito risolutamente di volerlo fare, ha annunciato la chiusura del cracking di Porto Marghera, dal quale dipende l’approvvigionamento di materie prime di tutta la chimica cosiddetta padana. Poco dopo, a causa dell’abbassamento del prezzo del petrolio, ha trovato conveniente tornare sulla propria decisione e riattivare il cracking.

Certo, ci sono anche altre modalità di approvvigionamento per lo stabilimento di Ferrara, ma con quali conseguenze sui costi e sulla qualità dei prodotti? Non credo sia estranea a queste considerazioni la scelta di Lyondell Basell di ridimensionare già da un paio d’anni il proprio impegno in ricerca nello stabilimento di Ferrara. Non dobbiamo mai scordarci che il punto di forza dello stabilimento di Ferrara è proprio nell’attività di ricerca, gestita da Basell, che occupa diverse centinaia di addetti e che ne fa uno dei centri di ricerca sulla chimica applicata più importanti del mondo.

Purtroppo le ultime vicende hanno dimostrato non solo che i veri centri decisionali di Basell sono oggi molto lontani dall’Italia, ma anche che rischiano di rispondere più ad interessi finanziari di breve periodo che a logiche di valorizzazione delle competenze e delle possibilità di sviluppo industriale. Tanto più nella perdurante assenza, appunto, di politiche industriali nazionali in grado di creare occasioni e convenienze per l’esercizio di questa attività in uno stabilimento come quello di Ferrara.

E’ possibile pensare ad un’alternativa al Petrolchimico? Smantellarlo significherebbe un boom della disoccupazione e non ce lo possiamo certo permettere.

Non credo esistano per Ferrara serie alternative economiche ed occupazionali al Petrolchimico. Le conseguenze di un suo smantellamento sarebbero incalcolabili. Quello che si può, anzi si dovrebbe senz’altro fare è lavorare per una sempre maggiore presenza della ricerca e contemporaneamente per una riqualificazione delle attività produttive che favorisca attività “green”, con sempre minore impatto ambientale, con minori consumi energetici e con maggiori possibilità di riciclo dei rifiuti. Ma se speriamo che sia la singola azienda o magari “il mercato” a governare questa trasformazione, siamo, nel migliore dei casi, degli illusi!

Lascia un commento

Prima di lasciare il tuo commento, ricordati di respirare. Non saranno ospitati negli spazi di discussione termini che non seguano le norme di rispetto e buona educazione. Post con contenuti violenti, scurrili o aggressivi non verranno pubblicati: in fondo, basta un pizzico di buon senso. Grazie.