La casa di Matteo Bianchi è difficile da trovare. Così come a volte il significato puro di quello che scrive: le sue parole sfuggono, chiedono di essere comprese e al tempo stesso si nascondono. “La metà del letto”, Barberaeditore, è una raccolta densa di emozioni tutte diverse, di pensieri che sfrecciano veloci come una bicicletta nella nebbia di Ferrara in una sera d’autunno.

Tolti gli stivali e le calze, Listone Mag è salito sul letto di Matteo Bianchi e ha cercato di capire e sapere di più.

Matteo,  pensavo che il libro si chiamasse “l’altra metà del letto” e non “la metà del letto”, e davo per scontato che nella prima metà del letto ci fossi tu, invece è solo un letto a metà? Chi c’è su questa metà del letto? Tu? Donne? Uomini? Fantasmi? Un picchio di peluche?

C’è un po’ di tutto e niente. C’è l’idea che io mi sono fatto dalla realtà, quindi quello che ho vissuto e attraversato tra le due città del libro che sono Venezia e Ferrara: c’è la specialistica a Venezia e il ritorno a Ferrara, che coincide con il terremoto e con la fine di una lunga storia d’amore.

Mi ha colpita molto un passaggio del libro in cui hai scritto che tuo padre “diceva che l’amore, quello vero, se ne va come ci ha sorpreso: non fa domande”. Mio padre dice sempre che l’amore è una disfunzione, una malattia: qual è il problema dei padri secondo te? Sono loro che sono più esperti o siamo noi che siamo ottimisti? Oppure tu sei d’accordo con lui?

Io sono profondamente d’accordo con mio papà ed è il motivo per cui ho riportato il suo pensiero. Non mi interessa che l’amore sia una disfunzione del cervello o una malattia, perché alla fine la cosa importante è come ci fa sentire, quindi la sua definizione lascia il tempo che trova. Penso che spesso e volentieri quando siamo innamorati, quando amiamo in maniera completa, lo facciamo coincidendo interamente con il nostro sentimento: noi coincidiamo con quello che proviamo, e una volta che un amore (per una persona, un luogo, una situazione, una passione, una cosa astratta) finisce, sostanzialmente genera un lutto perché finisce quell’io che coincideva con quel sentimento.

In una delle poesie metti in relazione la tela di ragno e il dolore, e scrivi: “non soffiare sulla tua sofferenza, abbine cura”. Perché, secondo te, bisogna avere cura della propria sofferenza?

Questa poesia è nata durante il terremoto: il centro di Ferrara con la sua bellezza cristallizzata nei secoli mi ricordava molto una tela, che è la base del sostentamento del predatore ma è anche la morte della preda ovviamente. Paradossalmente, noi che abbiamo costruito la bellezza di Ferrara nei secoli saremmo diventati la preda della nostra stessa opera, se fosse crollata con il terremoto. Dico di non soffiare sulla nostra sofferenza perché è la sofferenza che ha prodotto le poesie (che sono sempre forma), ed esse sono la risultante di un esercizio sofferto. La sofferenza è il nesso che intercorre tra causa ed effetto, tra forma e sostanza. La poesia, che è molto più vera della prosa, nasce dalla coincidenza di qualcosa che l’ha generata, quindi se soffiassi su una tela e la spezzassi, mancheresti di rispetto alla poesia, che non è altro che la sofferenza che fuoriesce dal dolore: “dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior”, se vogliamo citare De Andrè.

Hai detto che la poesia è più vera della prosa, ma dici anche che non tutto è spendibile in versi: c’è qualcosa che non sei riuscito a esprimere?

Sì, perché questo volume è nato da tante mancanze. Il pieno di sensazioni ed emozioni che può dare una raccolta di poesie o un romanzo introspettivo a mio parere è la prova di una profonda mancanza: noi sentiamo pieno emotivo qualcosa che è stato vuoto. A me piacerebbe riuscire a comunicare in versi le persone che mi fanno sentire completo, e che non riesco a gratificare. Al tempo stesso, la raccolta è la prova verso altri (citati senza nome, ma non serve il nome nelle emozioni) che quel vuoto diventa un peso notevole per chi l’ha causato, o è stato mio complice nel causarlo.

Mi piacerebbe riuscire essere grato con la scrittura, mentre difficilmente una scrittura emotiva è grata. Torniamo sempre a causa ed effetto: spesso ho l’impressione che la poesia mi aiuti a cambiare di segno la realtà: quando qualcosa è insostenibile dal punto di vista reale (parole, momenti, pressioni nei rapporti umani – scrivo quasi sempre a seguito di rapporti umani fallimentari) cerco di sfogarmi, ma non è solo questo: nel momento in cui si fa passare qualcosa attraverso la parola poetica, per chi lo legge diventa improvvisamente toccabile, comprensibile e bello, quindi cambia di segno… una sorta di opposto complementare.

Foto di Claudio Furin

Nella raccolta parli spesso del profumo delle mele ed è una cosa che sei riuscito a rendere tangibile… e rendere reale un odore è forse la cosa più difficile di tutte. Cos’è per te il profumo delle mele?

Il profumo delle mele è quello con cui identifico in maniera genuina il buono che avanza della nostra terra, che forse ha sempre avuto pretese o aspirazioni di terra d’avventura o di industria, ma sostanzialmente è sempre stata una terra agricola che ha prodotto mele e pere. Il profumo delle mele è anche quello della frutta che ho raccolto nelle campagne estive in passato, e quindi mi ricorda un po’ il “toccare con mano” la mia terra.

C’è una frase che mi ha fatta arrabbiare nella poesia “Vita privata”, e adesso sarà il caso che me la spieghi: “adesso cara mi andresti tu persino innamorata”…? Cosa volevi dire?

Devi sapere che “Vita privata” contiene un sacco di parabole, di esempi di vita altrui che narro in prima persona perché mi sento coinvolto nella vita degli altri.

È la storia di un ottantenne che mi ha raccontato questo flash sul suo divorzio nel parcheggio di fronte a Settimo. Lui, che per tanti anni ha criticato le premure pedanti della moglie nelle piccole cose di tutti i giorni, alla fine si è trovato talmente disperso nella mancanza di lei dopo la separazione che anche lei innamorata (quindi scrupolosa, rompicoglioni, martellante…) gli sarebbe andata.

…rimaniamo sulla provocazione: a pagina 60 hai esordito con una citazione di Romeo & Juliet dei Dire Straits “There’s a place for us, you know the movie song. When you gonna realize it was just that the time was wrong, Juliet?”. Cosa ne pensi dell’opera di Shakespeare, ti piace? A me, personalmente, no.

A me piace molto, se pensiamo all’anno in cui è stata concepita sia la sua carica drammatica che l’equilibrio tra i personaggi sono perfetti.

Ma non trovi che come storia d’amore sia un po’ triste?

Ti ho appena parlato di carica drammatica…

Lo so, però…l’Amore…non dovrebbe essere felice?

Perché dobbiamo assoggettarci al lieto fine? Non c’è mai il lieto fine. La canzone, di cui ho inserito la citazione mi piace, in particolare per l’interpretazione che danno i Dire Straits perché applicano il dramma shakespeariano ad una storia d’amore loro, e Romeo dice: non eravamo sbagliati noi Giulietta, ma era sbagliato solamente il momento.

È uno degli aspetti terribili dell’amore quando una storia finisce perché due persone cambiano con due ritmi diversi, e quindi mantieni un profondo legame con quella persona che poi diventa affetto e non riesci mai a liberarti di quel fondo.

Hai scritto una cosa simile quando dici “se mi avessi aspettato, avremmo perso il treno insieme” …

Sì, anche perché poi ci si colpevolizza: se ci rendiamo conto che cambiamo a ritmi differenti, e magari ci accorgiamo di soffrirne quanto l’altro, poi ci sentiamo anche in colpa. Spesso e volentieri siamo attori per modo di dire: anche Romeo e Giulietta di Shakespeare sono attori per modo di dire, perché sono in balia del dramma. Per quanto essi provino anche l’escamotage del finto suicidio, alla fine ha comunque la meglio il caso.

Hai detto prima che a volte si cresce o si cambia a ritmi diversi e ci si sente anche in colpa. In una delle poesie su Giuda dici “Giuda aveva paura, il mondo non concede una seconda chance”: pensi che le persone concedano a sé stesse una seconda chance oppure che si portino dietro la loro colpa e continuino ad espiarla in eterno?

Dipende. Il problema è che quando ci si dà una seconda chance si deve anche ammettere l’errore, e non sempre è facile farlo. Nel momento in cui noi invece non ci si dà una seconda chance, comunque si perde tutto quello che l’errore comprendeva. Pensa al tradimento: in una storia d’amore prima di confessarlo alla persona a cui si è mancato di rispetto, il tradimento allontana te, dentro di te, da lei. Di conseguenza, nel momento in cui ci si abbandona a un istinto che magari alleggerisce quell’attimo e distoglie dai problemi del momento, si fa un passo indietro dentro sé stessi. A quel punto accettare la macchia e il senso di colpa significa accettare l’errore e accettare di rimediarvi. Credo che in amore sia impossibile: più il sentimento è intenso, più è intransigente e vitreo, quindi cristallino e trasparente e si rompe con più facilità.

Ho una domanda seria: cosa intendevi dire con “noi siamo solo se accettiamo di non essere”? Intendevi dire che solo nel momento in cui accettiamo quello che non siamo riusciamo a dare spazio a quello che siamo? Io l’ho interpretata così: capito che non sono in un modo posso lasciare spazio a quello che veramente sono. Magari per tutta la vita sono stata convinta di essere A e invece sono B, e solo quando capisco di non essere A posso lasciare spazio a B.

Mi piace la tua interpretazione… ma non ho capito. Ma che cazzo ho scritto anche io…

Ci riprovo con un esempio: magari una persona dice “io sono figlio di avvocato, devo diventare un avvocato”. Poi diventa grande e si ricrede, e pensa “a me fa schifo, io non sarò mai avvocato”: quindi per tutta la vita questa persona era convinta che sarebbe diventata avvocato, ma poi scopre che avvocato non lo è, non lo vuole essere e non lo sarà mai, e solo in quel momento lascia spazio a quello che è veramente.

Esatto!

[Ora ne ho la certezza: Matteo Bianchi ed io abbiamo seri problemi di comunicazione, e per ovviare a questo lui mi asseconda, ndr]

È vero, inoltre estremizzando e parallelamente astraendo ancora di più tu possiamo dire che ci si riesce a concepire vivi solo nel momento in cui si vede la propria fine, e come fine intendo i limiti. Questo esempio concreto che hai fatto può essere l’accettazione di un limite: accetto di avere quel limite e quindi riesco a sviluppare pienamente le mie potenzialità, proprio perché l’ho accettato. Nel momento in cui invece non lo accetto e persevero mi tarpo le ali da solo.

Ci si rende conto di esistere nel momento in cui si sa di avere una scadenza, e dunque a maggior ragione si cerca di assaporare ogni momento…e questo è un concetto universale, che l’abbia detto Seneca, Calvino o Pazzi in successione temporale.

Ho un’ultima domanda, ed è una domanda veramente poco seria: hai definito Venezia come una “sfatta libertina di tarda età”… Venezia per te è una milf?

No, perché la milf presuppone la presenza di figli, mentre Venezia non ha prole, è sterile. Non può avere figli perché è troppo bella. È inarrivabile. È impossibile il confronto. Forse più che una milf è un “mummione”: l’ho sempre pensata come uno di quei luoghi che hanno un proprio universo in cui si ogni volta che ci si mette piede. È come se il tempo lì stesse alle regole della città e non viceversa.

3 Commenti

  1. Artemisio Martegutti scrive:

    Quindi questo è Matteo Bianchi, scrittore poco celebre. Mi ricorda un certo Matteo Bianchi, scrittore più celebre. Mi ricorda molto anche l’elezione di Eddie Murphy al Congresso in “Un distinto gentiluomo”.

  2. Manuela Barattini scrive:

    Comprerò il libro perché ho bisogno del profumo delle mele. Brava Linda: un bell’articolo, le foto vorrei averle fatte io!

  3. Artemisio Martegutti scrive:

    Se hai bisogno di profumo di mele puoi sempre comprare un chilo di renette e mangiarle davanti a “Un posto al sole”.

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