Ventidue chilometri di perimetro, forma a pentagono, torri di fumo. Il Petrolchimico è una realtà ferrarese di cui sappiamo troppo e troppo poco.

Il colosso industriale nasce in un’Italia grande potenza industriale. La plastica moderna, il Moplen, quella che Gino Bramieri sponsorizzava nel Carosello: « E mò e mò e mò… Moplen! », è nata proprio qui, a Ferrara. Al premio Nobel Giulio Natta e al chimico tedesco Karl Ziegler spetta il merito della scoperta e della messa a punto del processo di polipropilene (polimero termoplastico). La ditta Montecatini, che all’epoca possedeva il 100% dell’impianto, deteneva appunto il brevetto della materia plastica, un nuovo materiale rivoluzionario.

Le materie prime coinvolte in un Petrolchimico sono i derivati del petrolio e il metano. L’azoto tratto dall’aria e l’idrogeno dal metano vengono trasformati prima in ammoniaca e poi in acido nitrico. Con la distillazione del petrolio grezzo si ottengono gas di elevata purezza come etilene, propilene e metilene. Il cracking, l’impianto che produce etilene e propilene, arriva da Marghera sotto forma di gas lungo tubature.

Una famiglia su tre a Ferrara ha un parente che lavora al Petrolchimico. E un Petrolchimico non è mai qualcosa di popolare. Molti ferraresi giurano di annusare strani odori passando in macchina nei pressi dello stabilimento e l’incidenza di tumori nella zona Barco non è certo una brutta favola. Gli abitanti, però, sembrano aver imparato a conviverci, come se non avessero alternative, come ci si abitua ad un fantasma invisibile, parte integrante del paesaggio.

Per saperne di più abbiamo incontrato alcune persone che ci porteranno a fare un viaggio all’interno della Bestia Fumante, pubblicheremo i loro racconti in più parti, a partire da oggi.


 

Incontro ravvicinato I – Davide

«La LyondellBasell è come un leone alfa. Quando si muove lei, tutta la savana si sveglia».

Davide, operaio chimico, è stato uno degli ultimi a varcare la soglia del colosso della chimica. Non pensava di trovare un lavoro fisso così presto, dice. E pensare che da bambino andava a pescare nel canale Boicelli, che costeggia e delimita il Petrolchimico, separandolo dalla zona residenziale di via Marconi.

Come hai cominciato?

Sono entrato con il concorso ufficiale indetto dal CPF, il Consorzio Provinciale Formazione. Ho superato un test d’ingresso, uno scritto attitudinale in cui si chiedeva una minima conoscenza della chimica e un colloquio. Prima di iniziare a lavorare sul serio, ho seguito un corso di addestramento di base e uno stage di un mese.

Com’è stato l’impatto?

Abbastanza spaventoso. L’impianto in cui lavoro è grande come il Duomo di Ferrara. All’inizio, fissavo i monitor della sala controllo e mi chiedevo come si fa a capire tutte quelle frecce, quelle valvole rosse e verdi. Ero davvero spaventato, avevo paura che mi cacciassero. Mi dicevo: si renderanno conto che non so fare niente! Invece è diventato il mio lavoro. Sono un turnista. Sono una parte della macchina. L’impianto è fatto di metallo e di carne. Se lavori lì dentro fai parte dell’impianto anche tu.

Cosa produce esattamente il Petrolchimico?

E’ quello che mi chiedevo sempre prima di entrare: cosa c’è là dentro, cosa fanno oltre quel muro? La Basell produce plastica. O meglio pellet, pallini di plastica grandi come lenti a contatto e spessi qualche millimetro. Vengono spediti ad altre società che lavorano la materia prima. E da lì nascono i biberon, i portatovaglioli, i paraurti delle macchine. Tutte cose che devono essere resistenti.

Com’è la tua giornata tipo?

Alle 5.30 sono già in sella sulla mia bici, nel buio e nel freddo più completo. Sono sempre bardatissimo. Cappuccio calato sugli occhi, mani nei guanti, però così è certo che ti svegli. Per certi versi lo stabilimento la classica fabbrica, passi il badge e sei dentro. O quasi. Quando superi i tornelli, però, non sei entrato davvero. Il Petrolchimico è un gigante, circondato da un muro altissimo. Lì dentro puoi girare in bicicletta, ce ne sono tantissime parcheggiate dentro, sembra di essere in stazione. Oppure puoi prendere una linea a uso interno per turnisti. L’autobus fa il giro di tutti gli impianti. Di solito arrivo in anticipo di un quarto d’ora, così la squadra ha il tempo di passarmi le consegne. Timbro alle 6 e cominciano così le mie otto ore di lavoro sull’impianto.

Foto di Giacomo Brini

Cosa fai esattamente?

Sbrigo lavori manuali oppure siedo al quadro comandi in sala controllo. Ci sono otto monitor, quattro tastiere, un monitor gigante degli impianti per le telecamere e una planimetria generale. Ogni impianto ha la sua sala controllo. Si lavora in squadre: da un minimo di tre fino alla decina di persone, a seconda della dimensione e complessità dell’impianto. Tutte con un turno di otto ore. Quando opero dalla sala controllo, comunque, non sono quasi mai da solo. C’è un continuo via vai di gente. Quando si lavora al quadro, si deve seguire con attenzione i vari parametri del processo. Ad esempio le temperature e le pressioni degli strumenti installati in campo. Il nostro compito è intervenire, attraverso il sistema computerizzato, sulle aperture e chiusure delle valvole che si trovano sull’impianto, in modo che l’assetto delle macchine sia corretto. Interveniamo quindi sulle temperature e le pressioni, gestite prevalentemente da sistemi automatici ma sempre pilotati dall’operatore quadrista. Inoltre si comunica via radio agli altri membri della squadra quale tipo di intervento è necessario per proseguire con la reazione.

E’ un lavoro duro il tuo?

Direi di no. Non ho manovre pesanti da fare. Gli strumenti che uso di più sull’impianto sono il cacciavite e la chiave inglese. Quando sono in campo, appunto, mi occupo di questi piccoli interventi (aprire la valvola X che si trova nel punto Y, chiudere la valvola Z che si trova da un’altra parte, mettere in marcia un compressore o fermarne un altro, cose così). Oppure mi armo di chiave inglese e cacciavite ed eseguo piccoli interventi, sono problemi tecnici facilmente risolvibili. Dei lavori più pesanti se ne occupano dei veri e propri meccanici che lavorano per imprese esterne, e noi siamo incaricati di dare loro tutta l’assistenza necessaria durante lo svolgimento del lavoro, visto che l’impianto è “casa nostra” e loro non lo possono conoscere a menadito. I turni però non sono facili. Lavoro dalle 6 alle 2 o dalle 2 alle 22, o dalle 22 alle 6.

Il riposo ti basta?

A me sì. Ci sono sempre almeno 16 ore di riposo obbligatorie. Però alle 2 arrivo a casa distrutto. Non oso immaginare chi ha bambini piccoli a casa.

Cosa indossi mentre sei al lavoro?

Elmetto, guanti, tuta anti acido, occhiali protettivi, maschera antigas. Solo per particolari manovre una maschera anti-polveri.

Parlaci un po’ della sicurezza. Un Petrolchimico fa sempre paura.

Posso solo dire che non c’è nessun rischio Chernobyl. L’impianto è super protetto. Per ogni minimo lavoretto interno svolto dalle imprese meccaniche dobbiamo sbrigare una valanga di burocrazia e compilare permessi su permessi. Tutti noi seguiamo costantemente corsi sulla sicurezza. Escludo il rischio di un “caso Thyssen Krupp”. Lì la sicurezza era un punto di domanda, ho letto che spegnevano un incendio al giorno. Quando ho cominciato a lavorare, aveva già preso piede una certa etica ambientale e una cultura della sicurezza. Una volta, però, era molto meno avanzata.

Cosa succede in caso di incidente?

Anche per una cosa da niente scatta un sistema di protezione, ad esempio per una piccola perdita di olio. In caso di blackout partono delle valvole di sicurezza a protezione dell’impianto. Se scoppia un incendio interviene un sistema complicatissimo. Diciamo che il massimo che può succedere è che si buttino via migliaia di euro ma nessuno si fa male. Anche perché è nell’ interesse dell’azienda. Quelle che registrano meno incidenti ottengono più benefit. Un’azienda sicura e affidabile guadagna più punti e i dirigenti guadagnano qualche benefit per la corretta gestione della fabbrica. Tutto quello che ho imparato sulla sicurezza l’ho anche portato fuori dal lavoro, nella vita di tutti i giorni. Prima magari tagliavo un ramo con la motosega e senza guanti. La sicurezza sul lavoro in Italia, semmai, è più trascurata nelle piccole aziende e nei cantieri. Lì sì che è presa sotto gamba.

Cosa fa il Petrolchimico per prepararsi ad un eventuale incidente o attacco?

Qualcuno ricorda ancora l’undici settembre. Avevamo una camionetta dei militari che piantonava l’ingresso. Inutile dire che lo spazio del Petrolchimico è no flight zone. Abbiamo dei nostri vigili del fuoco interni, con i loro camion e il loro campo di esercitazioni. In caso di fughe di gas abbiamo delle torce che si accendono perché sono scattati sistemi di protezione. Quelle dalla parte del Bennet si accendono tutte insieme ed esce del fumo nero, come una pentola a pressione con dentro materiale chimico, che scarica gli sfoghi nelle torce. Sono sfoghi di emergenza. Ma capita raramente. Si fanno anche tante esercitazioni esterne. Si mettono nelle buchette della posta annunci di prove con tanto di sirene di emergenza-chiuditi in casa-abbassa le tapparelle. In caso di blackout si spegne tutto. E’ successo una volta anni fa: si è innescata una batteria di emergenza, la batteria-tampone, e da quel momento abbiamo avuto un’ora per metter tutto in sicurezza.

Che tipi di emergenze possono verificarsi?

Ce ne sono di tre tipi. La prima è un principio di incendio (provocato dalle scintille di una mola per esempio). La seconda emergenza è la prima che si è aggravata. Se tira il vento l’incendio si allarga fino a coinvolgere un altro impianto. A me non è mai capitata, tranne nelle simulazioni. La terza emergenza è solo teorica e non è mai successa. Per terzo grado si intende qualsiasi cosa che possa coinvolgere l’esterno della fabbrica (causa fuoriuscita di fumi, fiamme o altro).

Cosa esce da quei camini sopra l’impianto?

Da alcuni esce vapore acqueo. Il fumo bianco che si vede è tutto vapore. Da tutti gli altri, per quel che ne so, esce azoto e minimi residui di lavorazione, che poi si disperdono e disgregano nell’aria. La percentuale di emissioni in atmosfera c’è, i residui della lavorazione, ma è piuttosto ridotta. Ed è sempre controllata.

[Da Wikipedia: L’azoto molecolare o azoto biatomico o azoto diatomico o diazoto (N2, composto di due atomi di azoto) è un gas incolore, inodore, insapore e inerte che costituisce il 78% dell’atmosfera terrestre (in frazione di volume che è anche approssimativamente la frazione molare), è, infatti, il gas più diffuso nell’aria, e spesso viene semplicemente ma impropriamente chiamato azoto.]

E dalla torre di raffreddamento della Yara? Quella fiamma eterna è inquietante

Invece c’è da aver paura se si spegne. La fiamma abbatte residui nocivi. Le torce bruciano ciò che viene disperso nell’ambiente.

Il Petrolchimico di Ferrara fa parte del Quadrilatero Padano di industrie chimiche: Marghera, Mantova, Ferrara e Ravenna. Marghera pare che sia in fase di smantellamento, Ravenna è stata ridimensionata. Quattro anni fa alla Basell c’erano 1100 dipendenti, ora se ne contano 860, di cui una metà lavora nel Centro Ricerche e l’altra metà nella produzione. Com’è la situazione?

Di sicuro non assumono più come prima. Il grosso delle assunzioni alla Basell risale infatti alla metà degli anni ’90 quando si sono aperte le porte. La crisi un po’ si sente. Se non ci fosse la Berco a Copparo e il Petrolchimico, Ferrara sarebbe rovinata a livello economico.

Chi possiede il Petrolchimico?

I Consigli di amministrazione. Siamo diventati una multinazionale e quindi l’attenzione per la sicurezza ambientale è totale.

Davide paga i caffè e inforca gli occhiali da sole. Tra poche ore comincia il turno. Se lavori al Petrolchimico fai parte dell’impianto anche tu.

(fine prima parte – continua)

5 Commenti

  1. Florio Piva scrive:

    La cosa è molto importante perché io la lasci perdere. Prima di trasferirmi a BS ho passato 10 anni nello stabilimento petrolchimico dell’Edison di Mantova.. Io ero un tecnico addetto alle coibentazioni (magnesia e amianto) e alle verniciature di protezione delle apparecchiature con vernici speciali antiacide e antisolventi. Se penso a cosa ho respirato mi vengono i brividi. Allora adottavamo protezioni dichiarate efficaci, senza sapere che una tuta e guanti di amianto ci avrebbero potuto uccidere anziché proteggerci. Ho lasciato quell’incarico non tanto perché sia stato furbo, ma per inseguire i miglioramenti economici che altre opportunità mi prospettavano. Ebbene quasi tutti i miei colleghi e amici che lavoravano con me sono deceduti per cause di servizio. Sono passati a miglior vita anche altre tantissime persone che conoscevo e lavoravano a Marghera.
    Ragazzi che lavorate a contatto con la chimica aggressiva, non sottovalutate mai nulla, verificate sempre nel limite del possibile le precauzioni prese perché in quelle condizioni ci creiamo un debito che si paga a media scadenza.
    Io mi reputo soltanto fortunato, non più bravo o più diligente dei miei amici che non sono più con noi. Ecco desidero raccomandarvi questo!

  2. Francesco Sforza scrive:

    Non posso che trovarmi in sintonia con il collega Davide dopo 24 anni che faccio più o meno le stesse cose che fa lui, compresa la sopportazione di temperature estreme e puzze mattinere date dal fatto che abito proprio a Pontelagoscuro a 2.5 km dal petrolchimico. Ma con tutti i pregi e difetti di questo lavoro mi sento di dire che tutto sommato sono fortunato di lavorare li e, che le condizioni di lavoro che ci sono all’interno del petrolchimico sono molto positive per chi ci lavora, perché l’argomento sicurezza e sempre all’ordine del giorno, compresa quella ambientale. E, quando si accendono le torce, e una confortevole conferma che, i gas che in alcuni casi di emergenza sono in eccesso, vengono bruciati subito senza così diventare una fonte di pericolo per tutte le persone che vivono e lavorano dentro e fuori dal petrolchimico. Il petrolchimico non è sicuramente una attività salutare per tutti, ma vi posso assicurare che le cose li dentro vengono fatte come si deve nel rispetto della sicurezza personale ed ambientale , e che , alla mia famiglia e a tutte le famiglie di coloro che vi lavorano dentro ha portato un gran bene.

    Saluti

  3. Florio Piva scrive:

    Sig. Francesco, sono molto contento che in un ambiente di quel tipo la sicurezza sul lavoro sia così ben ottemperata, Questo significa che i miei ex colleghi non sono deceduti per nulla!
    Perdere la vita per guadagnarsi da vivere per me non ha senso, specie se la causa è spesso la leggerezza con cui si affrontano i problemi. Le auguro che il progresso possa fare ancora di più per la salvaguardia di chi lavora.

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