Daniele Cestari è un pittore, o un architetto.

Scatta fotografie ma non si lascia chiamare fotografo, colleziona chitarre che dice di non saper suonare, dipinge persone che non si vedono. Attraversa l’Europa, e non solo, ma ritiene che il viaggio sia una metafora di vita e non un semplice spostarsi.

Daniele è una contraddizione, o forse no.

Come nelle sue opere il messaggio è nascosto e tocca allo spettatore trovarlo. Non c’è nulla di giusto o di sbagliato, un’emozione arriva se sei disposto a non fermarti alla superficie delle cose, bisogna esplorare, conoscere, o come dice lui, viaggiare.

Io Daniele non lo conoscevo ma i suoi quadri mi sono piaciuti da subito.

Pochi colori scelti con cura, campagne innevate che ti riportano al silenzio della provincia, città dove la tela sembra l’obiettivo di una macchina fotografica sporco di smog. Ogni opera racconta un paesaggio dove le persone non si vedono ma sembra che abbiano lasciato una traccia.

Si laurea in architettura nel 2009 con una tesi in progettazione urbanistica.

Come pittore collabora con diverse gallerie anche in ambito internazionale: Albemarle Gallery (Londra), ShineArtists (Londra), Smelik&Stokking Gallery (Amsterdam, Rotterdam), Sloane Merrill Gallery (Boston), Galleria Stefano Forni (Bologna), BarbaraFrigerioContemporaryArt (Milano), ZenoneContemporanea (Reggio Emilia), Nuovo Spazio Artecontemporanea (Piacenza), Rocca di Cento (Ferrara), Cassero Senese (Grosseto). Viene invitato al Padiglione regionale Emilia Romagna per la 54° Biennale di Venezia nel 2011.

Nasce a Bondeno, ma vive a Ferrara in un piccolo appartamento che usa anche come studio per dipingere.

La sua ultima mostra “viaggio di ritorno” comprende una serie di quadri, spesso senza titoli, dove il tema principale è il viaggio inteso come modo naturale di approcciarsi alle cose, compresa la pittura.

Daniele ci ospita nel suo appartamento dove abbiamo l’occasione di scattare qualche fotografia e conoscerci meglio.

Partiamo dall’inizio, potessi definirti in poche parole quali useresti?

Un architetto che dipinge.

Mi piace più che definirmi pittore o artista. Nel dire “io faccio l’artista” c’è qualcosa di presuntuoso, non basta disegnare o dipingere per essere un artista. Gli altri forse possono definirti tale valutando bene la tua vita, quello che hai fatto e la qualità di ciò che hai fatto.

Che cosa è l’arte e cosa significa essere un artista?

Per essere artisti bisogna essere prima di tutto onesti, le tue opere devono riflettere ciò che sei e viceversa. Io sono un architetto, ho un forte amore per l’urbanistica e per le architetture, e alla fine dipingo principalmente palazzi. Poi questo può portare a fare anche ad altre cose, come qualche ritratto o altro.

Per quanto riguarda me, uso la fotografia come mezzo per fissare le immagini che poi dipingo, anche se non sono un fotografo. La fotografia è nel mio lavoro una prolunga della tavolozza, uno strumento necessario come i colori e i pennelli. Tutti i luoghi che dipingo sono veri, dove ho attraversato la strada, dove sono stato. Non ho quadri di immagini scaricate dalla rete, solo posti che ho vissuto, è tutto onesto.

Essere un buon artista dipende poi da tante cose: dalla tecnica, che credo sia molto importante, dal gusto, dalla scelta dei soggetti, dalla stessa cultura di una persona, tutti ingredienti necessari per realizzare qualcosa di qualità. Bisogna fare cose interessanti, non limitarsi a rappresentare un paesaggio ma esplorare mondi nuovi, con passione.

Fondamentale infine è non fare le cose solo per te, altrimenti il dipingere diventa terapia. Una volta ho avuto un bellissimo incontro con un gallerista di Milano che mi ha chiesto: “tu cosa fai per l’arte?”, io ora ci sto ancora pensando, ed è successo tipo otto anni fa…

 

Foto di Giulia Paratelli

Quando hai cominciato a dipingere?

Ho sempre dipinto, fin da piccolo, perché mio zio dipinge. Credo di aver imparato molto da lui soltanto guardandolo lavorare in silenzio, standogli semplicemente accanto, lo reputo un buon artista.

Quanto ha influito l’aver studiato architettura nel tuo lavoro?

Ha influito tantissimo, forse è stato il motivo per cui oggi dipingo; fai una scuola, ti interessi di alcune cose, entri nella materia e alla fine puoi tradurre tutto in architettura o in pittura. Architettura è un tipo di facoltà che ti consente di avere un legame con l’arte e forse questo mi ha aiutato in questo tipo di scelta. Come architetto oggi realizzo ancora qualcosa, perché può essere stimolante.

Hai fatto anche un’etichetta per un vino…

Si, è stata una storia simpatica. Ho dei cari amici di Siena che hanno un ristorante dove vado a mangiare ogni volta che sono lì. Un loro cugino ha una tenuta a Montalcino e con lui siamo partiti a fare queste etichette, quasi per scherzo. Ne abbiamo realizzate tre e la cosa ha preso molto. Il vino e le etichette hanno avuto un riscontro positivo, l’azienda vinicola è cresciuta, le bottiglie sono state poi esportate un po’ in tutto il mondo… Un’esperienza che rifarei.

Quando ti sei detto “ho capito che nella vita voglio fare il pittore”?

C’è un momento dove forse capisci, quando hai qualche risultato nella tua piccola esperienza, che il tuo lavoro interessa, che c’è un riscontro pratico. Da quel momento in poi ti fai qualche domanda, ragioni sul fatto che anche gli architetti sono tanti e ogni strada è difficile. Forse sentivo di più la pittura che l’architettura, oggi quest’ultima è legata anche ad aspetti burocratici e non solo artistici, e questo ha influito. È stato difficile, ma anche lavorare come architetto sarebbe stato ugualmente duro, e non solo l’inizio, è una prova continua, bisogna mettersi in gioco tutti i giorni.

Foto di Giulia Paratelli

Uno dei temi fondamentali dei tuoi lavori è il viaggio, cos’è per te il viaggio?

Il viaggio è un’esperienza, una metafora di vita, il motore della ricerca di un artista, e nel mio caso la pittura. L’unico modo per alimentare le emozioni, che sono fondamentali. Penso che il lavoro del pittore sia proprio questo. Io parto da Bondeno, sono nato in campagna, arrivo a dipingere, seguo le mie opere incontrando persone, curiosando, esplorando, e ora sono tornato da poco con una mostra che si chiama “viaggio di ritorno”.

Dico questo perché non credo esista un viaggio fine a se stesso, dove c’è una partenza e un arrivo, quella magari è la vacanza. Il viaggio è per me inteso come scoperta, un percorso, e non come un semplice spostarsi per vedere qualcosa e poi tornare. Poi certo, il viaggio è anche uno spostamento fisico, non è solo un tragitto mentale, perché comunque devi esserci in un posto per raccogliere delle emozioni.

Quanto è importante oggi ciò che hai assorbito nei tuoi viaggi passati?

Ti porti dietro tutto, credo che ogni cosa che vada ad arricchirti sia un ingrediente importante che ha un valore esponenziale nel presente.

Abbiamo detto che dipingi principalmente le città, cosa ti affascina dei paesaggi urbani?

Le persone. Le città mi piacciono perché imbrattate di passi, i paesaggi urbani raccolgono le tracce di chi le attraversa, riflettono la loro presenza. In un certo senso io le persone le dipingo, anche se non si vedono.

Come nasce un tuo lavoro?

Tecnicamente lavoro con molti materiali, principalmente olio, però mi piace contaminare. Dal punto di vista emotivo non ti viene l’ispirazione la notte come nei film, è una cosa che fai tutti i giorni.  Più lo fai, più viene voglia di dipingere… e più vengono idee. È un motore che si autoalimenta. Spesso cominci qualcosa, ti fermi, e ricominci in maniera diversa. Il momento di riflessione c’è quando devi scegliere le fotografie che hanno lasciato un segno particolare o che sono più inerenti a quello che devo fare. Anche in quel caso la scelta è dettata molto dal momento ed è possibile che ciò che avevo deciso il giorno prima non vada più bene il giorno dopo.

Quando realizzi un quadro hai un’emozione particolare che vuoi arrivi allo spettatore?

A me interessano le opinioni di chi guarda, che la persona legga qualcosa attraverso le immagini; una campagna può trasmettere una sensazione di ovattato, la città il rumore. Però ciò che poi lo spettatore legge va bene, tutto è giusto e tutto è sbagliato. Mi interessa di più parlare con i quadri che mandare un messaggio preciso. Se riesco a comunicare qualcosa mi fa piacere, senza però vincolare, infatti spesso le mie opere non hanno un titolo o se ci sono risultano molto personali.

C’è qualcosa che hanno detto dei tuoi quadri che ti è piaciuto molto e qualcosa che invece ti è piaciuto poco?

La cosa che mi è piaciuta di più è stata l’espressione di un tipo che mi ha detto “io per comprare un tuo quadro dovrei essere sull’orlo del suicidio…”, è stata talmente crudele che mi è piaciuta, onesta, sincera.

Invece la cosa che mi piace meno è l’indifferenza, non scatenare nessun tipo di emozione.

Quanto c’è di Ferrara nei tuoi quadri?

Forse l’atmosfera. Credo che anche Ferrara riesca in certe giornate, nonostante sia una piccola città, ad avere qualcosa che ti schiaccia e che ti avvolge; quieta ma a tratti pesante.

È possibile fare arte in Italia e in particolar modo a Ferrara o bisogna necessariamente spostarsi?

No, è possibile farla dappertutto, tanto Ryanair costa poco…

Quali sono i tuoi sogni nel cassetto e i progetti nel futuro prossimo?

Il sogno nel cassetto è continuare così, riuscire a vivere di quello che faccio e farlo sempre in maniera serena. I prossimi progetti sono qualche mostra in giro, anche per l’EXPO a Milano, un’apertura di una galleria di un amico a Montalcino dove sarò presente insieme ad altri artisti e che credo sarà un avvenimento interessante. Poi un’altra cosa che non dico per scaramanzia, nonostante ci creda poco.

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