“Ci vogliono molti anni per capire di essere morto”. E’ con in testa questa frase, rivolta da Silia a Leone Gala, che esco dal Teatro Comunale dopo aver visto “Il giuoco delle parti” di Pirandello, presentato da Orsini e la sua compagnia. Tengo a lievitare la pasta madre dei pensieri mentre mi dirigo ahimè a sfondarla sul più bello verso l’amica mondanità alcolica di altri lidi a me cari. Vorrei avere anche io una donna Silia che suggerisce tale riflessione nel momento in cui i giochi sono fatti e non si può tornare indietro perché il tempo è scaduto, il più tardi possibile s’intende.

Orsini interpreta Leone Gala con grande maestria, quest’uomo solitario che vive con il suo servo e ama filosofeggiare su ogni cosa. A differenza dell’opera pirandelliana, il primo atto comincia con lui ormai vecchio che svela l’intera vicenda dalla stanza in cui è ricoverato e fa la disamina della propria testolina con l’aiuto della moglie Silia lì presente, da cui è separato, la quale trova in lui l’estremo opposto della segatura nel cervello: la follia, ma solo in apparenza.

Un tempo erano entrambi giovani, piaceva loro avanzare, forse imprudenti, sull’orlo del precipizio, rischiando di cadere pur di assaporare quella vita che altrimenti si sarebbero risparmiati. C’è un limite oltre il quale un azzardo che si rivela sbagliato fa precipitare nell’abisso. Per non rischiare, meglio retrocedere di qualche misura e chiudersi in un quadretto sicuro, proprio ciò che ha fatto Leone. E’ evidente che Orsini volesse porre la faccenda sul tema della follia, sebbene un uomo che fugge dalla vita svuotandola del gioco di ruoli, emozioni e passioni per scegliere di restare in piedi ricorrendo a contrappesi come l’arte culinaria e la filosofia, a me onestamente sembra piuttosto ragionevole.

Silia è dunque sopraffatta dal marito. Mentre viene raccontata la vicenda, si scopre che Leone si è separato dalla moglie negandole i piaceri della convivenza passionale e borghese in cambio di una libertà solo apparente: lui non c’è mai, ma secondo gli accordi torna ogni giorno per mezz’ora a ricordarle di essere sempre presente: lei è schiava non tanto del marito come presenza, ma di quel passato che lo rappresenta e di cui non si può liberare. Come se non bastasse, Leone trascende ogni aspetto della sua vita nella filosofia. Per dirne una, preferisce chiamare il suo servo “Socrate”, e lo accusa di essere stato traviato da Bergson. Il servo non sa chi sia questa gente, fa alludere che Leone se la suoni da solo in un mondo immaginario, cioè da suonato.

E’ al culmine dello sconforto che Silia decide di uccidere il marito, quando è a casa sua da sola con l’amante, il Venanzi. Proprio a tal punto, l’evento che permette di edificare il piano assassino è l’arrivo di una masnada di beoni che la scambiano per la prostituta della casa accanto e vorrebbero che lei si concedesse cercando di metterle le mani addosso. Il Venanzi non viene coinvolto, messo in disparte proprio da Silia che cerca l’oltraggio e lo trova. Per ristabilire l’onore macchiato sarà necessario un duello tra il capo della banda, il marchese Miglioriti e, guarda caso, proprio il marito.

Non si può dar torto al Venanzi quando ammetterà di non aver agito per prudenza, poiché Leone scoprirà la sua presenza in sede di oltraggio e lo porterà a giustificarsi in qualche modo, pretesto che Leone sfrutterà per non entrare nell’ennesima parte che la vita gli chiede di assumere, costringendo il Venanzi a duellare al suo posto. Anche la prudenza costa cara, perfino stando sull’attenti al sicuro lontano dal rischio; trattiene negli schemi già collaudati della vita a buon mercato, per questo ammicca alla sconfitta. Il Venanzi pur di assecondare Silia nel piano assassino nei confronti del marito non può fare altro che consegnarsi alla morte, in verità segue la trama imposta dall’astuto Leone, che saprà demolire il piano mostrandolo per quello che è, il gioco delle parti nella realtà delle cose, con una tale lucidità da apparire pazzo.

Leone si ritrova sul finale da solo, posseduto da Orsini che gioca con Pirandello. L’unica compagnia a lui concessa sul palco è quella della moglie Silia per ricordargli che finalmente ha capito di aver davanti un morto consapevole della sua condizione, liberato da quei pesi che il vivere tranquillo tra il rischio e la prudenza inevitabilmente produce. La debolezza di un uomo – la lucida pazzia capace di decomporre la vita; e la tranquillità di un dio, la parte ultima che gli spetta al di sopra di ogni umana vicenda.

Ci tengo a dirlo, novanta minuti sono volati come niente. Le facce degli attori sembravano disegnate apposta per i ruoli assegnati, praticamente nati per giuocare, me li ero figurati proprio come hanno recitato. Personalmente ho apprezzato molto la parte del servo Socrate, interpretata da Ruggieri. Ogni volta che entrava in scena ero già pronto al sorriso, puntualmente soddisfatto. Mi aspettavo di vedere la scena della masnada di beoni arrapati che sconvolgono Silia scambiandola per una prostituta, da cui l’oltraggio. Questa ed altre scene mancavano, ma sono state tagliate per amalgamarle al resto con sapienza. Un lavoro ben fatto, ad averne la possibilità andrei a vederlo una seconda volta.

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