Il 29 gennaio ha avuto inizio in Biblioteca Ariostea una serie di incontri sulla delicata tematica delle donne e del loro rapporto con il mondo del lavoro.

La Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea sarà la sede di alcuni incontri dedicati alle Donne e al mondo del lavoro. Le quattro tappe del percorso “Donne al lavoro – perché le donne italiane non fanno carriera” sono:

– “Le mamme non lavorano”, sulle difficoltà pre e post maternità
– “L’eterna segretaria”, riguardante la svalutazione del ruolo femminile (martedì 10 febbraio)
– “Tesoro a chi?” in cui verrà trattato il tema del mobbing e della violenza nell’ambito lavorativo (mercoledì 4 marzo)
– “Quando il lavoro è passione”, in cui si parlerà dell’imprenditoria femminile (martedì 21 aprile).

Listone Mag ha incontrato le due organizzatrici, Sara e Simona, in un venerdì pomeriggio piovoso. All’intervista prende parte anche un ospite silenzioso ma molto attivo: il gatto Diderot.

Come è nata l’idea di questo ciclo di incontri?

Simona: L’idea è nata da una serie di post sul mio blog, dove scrivo delle mie passioni. Inizialmente mi dedicavo soprattutto alla letteratura e alla moda, poi ho cominciato a scrivere delle mie disavventure lavorative dando comunque un taglio abbastanza leggero. Il culmine è stato lo scorso inverno quando, dopo aver lavorato fino al nono mese di gravidanza, a distanza di un mese dal parto lo studio legale mi ha licenziata adducendo motivazioni tra le più disparate, mentre la realtà è che ero stata sostituita dalla mia collega. Tra l’altro, lo studio in cui lavoravo è paradossalmente specializzato in diritto del lavoro e in diritto dei consumatori, e per di più lavora per un sindacato. Qualche tempo fa ho incontrato Fausto Natali, responsabile della Biblioteca Ariostea, per tutt’altri motivi e così gli ho parlato del mio blog, dove ho raccontato questo episodio. A lui sono piaciuti i miei post e da lì è nata l’idea di organizzare una serie di incontri assieme a Sara, che da sempre si occupa di queste tematiche.

Trovo che tutti i vostri incontri abbiano un taglio nuovo e fresco, in particolare “Tesoro a chi?” è un titolo accattivante. Mi ha fatto venire in mente una ragazza che conosco: lei è una dottoressa e racconta sempre di come i pazienti chiamino lei “signorina” mentre gli altri suoi colleghi uomini vengano sempre chiamati “dottore”…

Simona: nello studio dove lavoravo, per i clienti il praticante maschio era “avvocato”, io invece ero sempre “signorina”, al massimo “dottoressa”.

Sara: questa mentalità è trasversale, sono le donne stesse a chiamare la dottoressa “signora” e il dottore, appunto, “dottore”. Mi è capitato in prima persona di partecipare ad un evento e nell’articolo uscito sulla stampa, scritto da una donna, ci si riferiva ai vari componenti del Gruppo come “il Segretario XY1, il Vicedirettore XY2, lo Scrittore XY3, e le Signorine XX1, XX2, XX3, XX4”.

[ndR: ho cercato l’articolo di cui ha parlato Sara, ed è inutile dire che mi si è letteralmente gelato il sangue nelle vene: tra le Signorine, addirittura maiuscolo, ci sono anche io. Signorina a mia insaputa!]

Diderot ha deciso che il mio quaderno gli piace, che gli piace il nostro aperitivo e seppur non interessato alla birra, trova di suo gradimento pop corn e patatine, attingendo senza remore alle ciotole poste al centro del tavolo. A lui, in fondo, della discriminazione delle donne non sembra interessare molto. I gatti non discriminano sulla base del sesso. Per lui Sara non è né Dottoressa, né Signorina. Sara è la persona che l’ha tirato fuori da un gattile e adottato, che gli ha comprato un tiragraffi e una cestina che lui, fondamentalmente, ignora. Ma sono sicura che abbia apprezzato il gesto.

Foto di Giulia Paratelli

Andiamo a ritroso: l’ultimo degli incontri, intitolato “Quando il lavoro è passione” mi sembra quello più ottimista, che porta una ventata di speranza. A volte però mi è capitato di avere la sensazione che nell’ambito di imprese quando ad avere l’idea è una donna sembra sempre che sia solamente un hobby che diventa lavoro, mentre quando si tratta di un uomo allora sia una cosa innovativa. Cosa ne pensate?

Simona: nel caso di Elisabetta Giorgi ed Erika Benigni, ospiti del quarto incontro, loro sono partite facendo tutt’altro e adesso sono molto apprezzate, la loro attività si è evoluta: non sono rimaste ferme all’idea iniziale, e il loro non è rimasto un hobby ma si è trasformato in qualcosa di più. Non ho notato, almeno in questo campo, questa differenza. Queste ragazze hanno un ottimo riscontro trasversale e nessuno “degrada” il loro lavoro a mero hobby, per quanto sia partito così: ora ha assunto le proporzioni di una vera e propria attività.

Sara: Trovo che sia un po’ la forma mentis italiana o comunque del sud Europa quella per cui la donna sia considerata meno autorevole, e soprattutto che lei si realizzi nella famiglia più che nel lavoro. Se una donna ha avviato un’impresa ma non ha una famiglia allora viene considerata una poveraccia.  Ti porto l’esempio di Rita Bertoncini, una bravissima videomaker di Ferrara il cui film è candidato al David di Donatello.  Quando Rita arriva in un teatro capita spesso che le chiedano dov’è il tecnico, e lei risponda “sono io” nell’incredulità generale. Nel nostro Paese c’è ancora la divisione tra “lavori da donna” e “lavori da uomo”, mentre nella mia esperienza personale non ho sentito queste cose in altri Stati. Magari in grandi città come Milano questo non succede, ma trovo che sia un qualcosa che è un tratto generale dell’Italia. Penso che ognuna di noi abbia l’aneddoto in cui viene chiamata cara, stellina, principessa o tesoro… Beh, tesoro un cazzo! [ndR: “Tesoro un cazzo!” era il titolo originariamente pensato per il terzo incontro, poi diventato “Tesoro a chi?”]
Stellina e principessa poi non si possono proprio sentire: più sono dette in modo gentile e più mi sento indignata. C’è questa idea dell’angelicazione/demonizzazione della donna… ma io sono una persona, non una stellina! La donna viene considerata come quella adibita alla cura e all’assistenza…e magari invece un uomo è molto più bravo di me a curare e assistere. Magari è banale quello che sto per dire: non si tratta di una questione femminista nel senso di “donne contro uomini cattivi”, ma di affermare una società giusta contro una sbagliata. Ci sono tante donne che dicono di non essere femministe, ma cosa vuol dire femminista? Io stessa ho rivalutato questo concetto, e ho trovato una definizione che secondo me è perfetta: “il femminismo è l’idea rivoluzionaria che le donne sono esseri umani”, non sono stelline. Se il femminisimo è questo, io sono d’accordo.

[ndR: Feminism is the radical notion that women are people, di Cheris Kramarae e Paula Treichler]

Simona: Penso che se ne sappia davvero poco della condizione delle donne lavoratrici. Il nostro, alla fine, è un problema nel problema: viene tutto assorbito nella problematica generazionale dei poveri disgraziati che hanno difficoltà a trovare lavoro, ma nello stesso ambito ci sono disgraziati più disgraziati di altri: in questo caso, le donne. Nella mia esperienza ho avuto purtroppo tantissimi riscontri: quasi tutte hanno un aneddoto a riguardo, è preoccupante ed è molto diffuso.

Sara: Il sessismo sul posto di lavoro è una cosa diffusa, ho trovato un articolo che riassume in otto punti le discriminazioni che generalmente una donna subisce sul posto di lavoro, e purtroppo le ho collezionate tutte. Un esempio? Sentirsi dire “hai il ciclo?” quando si esprime un’opinione in maniera più ferma.

Simona: L’intenzione di avere figli è una delle domande più gettonate. Addirittura ad una mia collega di Parma il capo, donna, aveva offerto di pagare la pillola. Il problema lavorativo è un problema che tocca tutti, ma la discriminazione femminile in questo ambito è un nodo che non si scioglie tanto facilmente…

Quello che mi lascia basita è che il problema non nasce solo dall’atteggiamento degli uomini ma anche, a volte, da quello delle donne stesse…

Sara: le donne hanno imparato a guardare la società con gli occhi degli uomini, la società è “maschilista” in senso lato e le donne ragionano come gli uomini per adattarsi.

Simona: è come quando sei stato assistente universitario e poi diventi docente: o ti dimentichi quello che hai subìto, e fai finta di nulla, o ti incattivisci. Hai faticato tanto per arrivare fino a lì e ti sei “mascolinizzata”.

Sara: un mio professore di francese, Hugues Sheeren, ha fatto un corso sulla femminilizzazione della lingua. In italiano, ad esempio può capitare di sentire frasi come “il sindaco ha partorito”, quando in realtà si dovrebbe dire “la sindaca ha partorito”. È normale che l’italiano sia a tratti sessista in origine, come tante altre lingue, perché è nato in un’altra epoca, in Francia però ad esempio negli anni ottanta hanno rivoluzionato la lingua e femminilizzato tutti i nomi. Si può fare anche in italiano, le regole ci sono: quello che finisce in –tore diventa –trice, avvocato diventa avvocata o avvocatessa, sindaco diventa sindaca, e così via. È vero che ci sono problemi forse più grandi e urgenti, ma non per questo non si può lavorare anche su questo aspetto e cominciare a muovere qualche passo in questa direzione. Nel secondo incontro, il dieci febbraio, si parlerà proprio di questo.

Simona: La femminilizzazione dei nomi, in particolare di quelli delle professioni, è il secondo step rispetto al riconoscimento del titolo: già passare da “signorina” ad “avvocato” sarebbe un grande passo, da “avvocato” ad “avvocata” sarebbe il massimo.

Sara: il mio professore diceva che quello che non nomini non esiste, quindi non nominare è come non riconoscere l’altro. Alcuni mi dicono poi che un nome femminilizzato “suona male”. È chiaro che se dico “sindaca” suona male, ma ci si abitua.

Non mi sembra che questa tra l’altro sia una cosa che richieda chissà quale  sforzo fisico, ma semplicemente un po’ di “allenamento mentale”.

Sara: l’Accademia della Crusca ha risolto i dubbi su come femminilizzare i nomi, dovremmo provare tutti a fare uno sforzo.

Simona: il mancato o comunque difficile riconoscimento di un titolo che è il risultato di anni di sacrificio e di studio, e che ti qualifica, è avvilente. Se proprio non si vuole usare il titolo allora usiamo i nomi propri: tu sei Paolo, io sono Simona.

Nel 2010 l’ex Ministra Gelmini è diventata mamma e ha dichiarato, riguardo al fatto di potersi permettere un rientro più rapido al lavoro: “io ho più facilità di altre donne a tornare subito a lavorare senza trascurare mia figlia. Ma non vuol dire non essere una buona mamma, dovrebbero farlo tutte”, e vede come un privilegio il fatto che le “donne normali” siano costrette a stare a casa dopo il parto. Inoltre aggiunge: “Una donna normale deve dotarsi di una buona dose di ottimismo, per lei è più difficile, lo so, ma penso che siano poche quelle che possono davvero permettersi di stare a casa per mesi. Bisogna accettare di fare sacrifici”. Accantoniamo il fatto che la Ministra trascuri completamente, ad esempio, la questione della depressione post partum, perché secondo lei la gravidanza è una cosa unica, uno “stato di beatitudine che dà una forza incredibile”, cosa ne pensate delle sue dichiarazioni?

Simona: l’ex Ministra è una persona avulsa dalla realtà, parla di cose che non conosce. Ha rovesciato il problema: in questo modo io sembro una persona privilegiata ad aver perso il lavoro dopo il parto. Se fosse una scelta quella di dedicarsi alla famiglia e di accantonare il lavoro, sarebbe diverso. Io ho sempre avuto genitori che lavoravano, e prendevano le ferie sfasate per passare più tempo con me. Ho visto i sacrifici che facevano: so cosa vuol dire portare avanti una famiglia e una vita lavorativa.

In Italia c’è chi decide per te che tu non vali più nulla dal punto di vista lavorativo, perché sembra che tu non possa più avere quella disponibilità assoluta di tempo che si pretende. Io sono un avvocato, e un avvocato è un libero professionista: deve fare atti e andare in udienza, e gli atti uno li può anche fare da casa. Il mio è un lavoro che garantirebbe flessibilità, e invece sono stata licenziata. Questo è sintomo del fatto che si cerca la collaboratrice factotum che risponda al telefono, prepari il caffè eccetera. Mia mamma 35 anni fa ha perso il lavoro perché, dovendo fare riduzione di personale, avevano licenziato le donne dicendo che avrebbero assunto solo uomini o donne sterili, ed ora la storia si ripete.

Sara: tra tutte le cose che avrebbe potuto dire, magari non è che il problema più urgente sia la mancanza di strutture, come ad esempio gli asili? Tante mie amiche italiane hanno perso il lavoro perché sono rimaste incinte.  Una mia amica di Dresda invece è stata a casa tre anni con stipendio pieno, e successivamente il marito ha potuto usufruire degli stessi permessi. Sono persone normali, ma hanno dei lussi che in Italia non abbiamo. Un personaggio pubblico come lei, intervistata da una testata giornalistica, avrebbe dovuto parlare delle strutture pubbliche, del sostegno alle madri e ai padri, del welfare che è carente… di cose da sistemare ce ne sono, proprio queste stupidaggini doveva dire?

Adesso oltre ad essere discriminate, spesso le donne devono portare su di sé anche il peso della discriminazione che viene spostato su di loro in quanto ritenute carenti o non più adatte…

Simona: certo, non ti verrà mai detto che ti licenziano perché hai fatto dei figli. Io stessa non sono stata licenziata perché ho avuto un figlio, ma sono stata accusata di aver avuto “gravi episodi di maleducazione”, quando fino a prima del parto avevo addirittura una targa di merito da ritirare. Al mio ritorno, dopo un mese di assenza, sarei diventata improvvisamente maleducata. Allora ho chiesto degli esempi, ma gli esempi ovviamente non c’erano. Quando sono stata assunta ero al terzo mese di gravidanza, il mese di assenza era stato concordato.  Almeno trent’anni fa te lo dicevano in faccia che ti licenziavano perché donna o madre, ora invece ti pugnalano alle spalle.

Con il nuovo Jobs Act la tutela della maternità dovrebbe essere estesa anche alle lavoratrici che non hanno un contratto a tempo indeterminato: ce la faranno i nostri eroi?

Sara: …e quelle che hanno i voucher? E la partita IVA?

Mi sembra che qui si stia esagerando.

Diderot si stiracchia sul mio taccuino, occupando tutto lo spazio che gli occorre. In maniera poco democratica, decide magnanimamente di lasciarmi giusto qualche riga a disposizione per terminare l’intervista. Credo stia cercando di dirci che lui non ha fiducia nel Jobs Act. Comincio a pensare che sia civatiano.

Secondo voi anche la religione, in particolare la Chiesa in Italia, ha un ruolo nella discriminazione delle donne? Se non ce l’ha più, l’ha avuto?

Simona: la Chiesa è inserita in un contesto storico. Noi siamo intrisi di religiosità,  o comunque lo eravamo un tempo, e non si può negare che una certa visione retrograda religiosa abbia avuto la sua influenza: la visione della donna come creatura intonsa, dedita alla famiglia, madre e sposa è un retaggio di secoli. Però, secondo me, attualmente la Chiesa non ha un ruolo particolare in questo frangente.

Sara: Io penso di sì invece. Sono stata educata valdese ed è innegabile che perlomeno in Italia come confessione religiosa siano più evoluti: pur essendo cristiani sono favorevoli al matrimonio gay, alla fecondazione assistita, al testamento biologico, al divorzio, all’aborto…

Simona: io distinguo molto tra la religione e la storicizzazione della religione. Dal punto di vista concettuale di messaggio trovo di no, da come è stata strumentalizzata o ha influito sull’educazione penso di sì: penso che abbia rovinato generazioni di donne che non si sono sentite libere di prendere decisioni, o di essere libere sessualmente, basti pensare alla battaglia sul divorzio o sull’aborto. Le generazioni influenzate da questo sono ancora tra noi, il ricambio avverrà più avanti.

L’iniziativa coordinata da Sara e Simona sembra molto interessante, perché rispetto ad altre analoghe ha un taglio nuovo, gli incontri sono strutturati in maniera dinamica e questo può essere anche un modo per farsi ascoltare di più.  È un bel segnale che partecipino le istituzioni, perché il rischio è quello di abbassare la guardia su una problematica ancora oggi diffusa. Sara e Simona ci tengono molto a sottolineare l’aiuto ed il sostegno ricevuti in particolare da Sandra Travagli, responsabile dell’Ufficio Politiche dei diritti e delle differenze – Pari opportunità del Comune di Ferrara. La loro preoccupazione? “Chissà se verrà gente il martedì pomeriggio, noi speriamo di sì”.

Finita l’intervista ho avuto modo di fare quattro chiacchiere con Diderot…

Senta Lei, cosa intendeva dire prima quando mentre si parlava del Jobs Act ha deciso di depositare prepotentemente le sue terga sul mio taccuino?

Diderot: Un gentiluomo non parla mai di politica, si figuri un gentilgatto.

D’accordo. Almeno, però, mi dica se parteciperà a questa iniziativa.

Diderot: sa com’è, io ho la FELV e sono invalido. Non posso partecipare agli incontri pur giudicandoli molto stimolanti. Se uscissi di casa e passassero, ad esempio, quelli di Striscia la notizia poi mi direbbero che sono un falso invalido perché gioco e salto come se la FELV non sapessi neanche che cos’è.

Insomma, ma lei è invalido oppure no?

Diderot: …

Il gatto, nero come la pece, con un occhio guercio e una FELV tutta da verificare, miagola e abbandona il mio taccuino preferendogli la sedia, acciambellandosi sornione.

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Note:

Questa intervista è stata revisionata seguendo le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, perché, come è emerso, a volte siamo anche noi donne ad autodiscriminarci: io avrei giurato che si dicesse “avvocatessa”.

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