‘Elettrico viola autostrada al mattino’. Erano gli anni ’80 quando Fausto Rossi, in arte (allora) Faust’O, andò sul palco mangiando una mela. Nulla di troppo strano direte voi, c’è chi ha fatto ben peggio su un palcoscenico. Sì, sì, avete ragione va bene? Però il fatto è un altro.

Negli anni ’80 Faust’O arrivò sul palco mangiando una mela, mentre in sottofondo partiva una sua canzone. Era all’Arena di Verona per uno spettacolo che poteva essere il Festivalbar. All’inizio segue il testo, ne canta un po’, poi cerca qualcosa nella giacca, tira fuori un frutto e lo addenta, mentre la voce (la sua voce, quella in playback) continua ad andare in sottofondo durante “Ch’an Cha Cha” (o era “Oh-Oh-Oh”, i pareri sono discordanti) . L’unica cosa che Fausto ricorda con precisione oggi di questo episodio è che “si incazzarono come delle bestie”. Aveva appena sdoganato il playback imperante di allora con le vitamine B1 e B2.

Penso a questo cantante spigoloso della scena new wave italiana mentre incontriamo Michele Rio. Non subito eh. All’inizio, mentre ci raggiunge verso il cancello che separa il mondo dal suo atelier, non penso a niente. Lui sta mangiando un kako arancione acceso. Le sue scarpe sono invece violette, un viola di tonalità chiara, più chiara rispetto al colore che usa spesso nei suoi quadri. Elettrico viola autostrada al mattino, appunto.

Forse è proprio questo kako che me lo ricollega mentalmente a Fausto Rossi. Chiude il cancello dietro di noi e ci fa entrare nel suo studio.

Appunto ai lettori: 

Michele Rio, classe 1958, è un pittore ferrarese attivo nelle scene espositive dalla fine degli anni ’80. Ha frequentato l’Accademia delle Belle Arti di Bologna ed è stato allievo di Concetto Pozzati. Oltre a molte mostre personali e collettive in numerose città italiane, ha esposto anche in Spagna, Germania e Inghilterra. In campo teatrale è stato pittore, autore di maschere e ornamenti di scena per varie compagnie, collaborando anche come assistente alla scenografia e grafico per il teatro “La MaMa Etc” di New York. 

L’intervista (?) dura neanche due minuti. Michele Rio finisce il suo kako, sembra buonissimo. Il fotografo Andrea Bighi ha appena il tempo di equilibrare le luci e di scegliere la composizione dei suoi scatti che ZAC! Michele Rio esordisce con un “Abbiamo finito? Per le foto potete fotografare le mie opere in esposizione, per l’articolo può trovare le mie cose sul sito. Ora glielo detto”. Mi detta il suo sito e indirizzo e-mail.

Foto di Andrea Bighi

Usciamo un po’ attoniti, sono quei casi in cui non sai se farti un bloody mary o una tisana. Guardo su www.michelerio.it sapendo già cosa mi aspetta. È lo stesso che aveva anni fa, con le stesse cose scritte anni fa. Ci sono le sue opere, ma non rendono come dal vivo.

Nelle tele scelte per “A tale, not a tale”, in mostra all’Hotel Annunziata fino al 30 gennaio, colpisce come sempre il colore. Blu ciano, bianchi che emergono dalla tela di juta e poi i viola, gli amati viola. Viola come le sue scarpe, che si fanno forza sopra a colori più umani, come le terre di Siena, i gialli, le sabbie. Poi ci sono i tessuti, broccati e velluti cuciti tra loro, confinanti, che mi ricordano gli appezzamenti di terreni visti dall’alto, da un mondo che non si ferma al particolare ma lo comprende. Ci sono le dediche, immense, come quella alla scomparsa Ellen Stewart, la fondatrice del Cafè La MaMa, uno dei teatri sperimentali più influenti al mondo. Divenuto nel tempo tra gli spazi più famosi Off-Off-Broadway, questo posto dava “voce a testi mai ascoltati e visibilità agli emarginati del sistema dello spettacolo, artisti in fuga dalla società conformista, strutturalmente diversi dai colleghi inseriti nel consueto sistema professionistico”, si legge da Wikipedia. Come del resto Faust’O, che dopo il playback con mela fu tolto dalle scene proseguendo la sua ricerca altrove.

E una ricerca proseguita altrove è anche quella di Michele Rio e della sua mostra dedicata all’artista statunitense Edward Kienholz e allo scultore David Smith. Sono racconti non raccontati quelli di Michele Rio, dai quali emerge uno strano equilibrio tra pacifica eleganza e riflessa inquietudine. Quel particolare bilanciamento che si ritrova negli occhi di chi l’inferno l’ha visto per davvero, di chi dalla ribellione ha tratto le proprie conclusioni e ora, non raccontandole mai del tutto, le imprime con ironia tanto sui broccati quanto sulla juta. Con quei bianchi, quei rossi e quei viola che si stagliano sopra i tessuti preziosi e i ricami perfetti non si declama più un “noi vogliamo tutto”. È semmai un “noi non avremo mai tutto, ora che facciamo?”. A Michele Rio restano dunque le tele, l’unico posto in cui possono valere le sue regole del gioco. È un inno alla gioia a alla rinascita, nonostante la morte di Ellen Stewart, dei jeans e di tutto il resto.

Potrebbe essere che Michele Rio, come Faust’O, abbia già capito tutto. Ma mica ve lo dice.

1 Commento

  1. azz scrive:

    Rio genio!

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