PROSTITUTE IN CARROZZA

DC3A2296Rita Bertoncini, video maker ferrarese, viene a trovarci in piazza. Ha una storia succosa. La zia di Rita, nata nel ’36, ricorda ancora quando sua madre, infilandole il cappottino, le diceva: «Dai, andiamo a vedere le donnine!». Sua mamma era sarta e confezionava abiti e sottovesti per quelle che oggi chiameremmo sex worker. Erano gli anni precedenti alla guerra, quando il palazzo del Mac era ancora il Palazzo della Ragione e le donnine erano le new entries del bordello di via San Romano. Pare che ogni quindici giorni si ripetesse il rito della sfilata sul listone.

Da dove venissero le prostitute non si sa, erano tutte italiane pare, venivano dai dintorni. In carrozze tirate da cavalli le prostitute facevano il giro completo del listone, sostando ai caffè storici. Ad ogni sosta seguiva un gioco di sguardi e cenni tra i clienti e le tenutarie del bordello. Le nuove arrivate dovevano mostrarsi ai clienti della piazza, merci in una società reificata.

La zia di Rita aveva 4 o 5 anni all’epoca. Troppo presto per considerazioni sulle case chiuse o sulla condizione femminile. Per lei era solo uno spettacolo. La bambina era rapita dai boa di piume, dai rossetti sfavillanti, dai cappellini e dagli abiti colorati, che erano sconsigliati alle donne ordinarie. All’epoca il rossetto era sinonimo di prostituta. E la bambina osservava queste donne come se fossero delle signore, delle attrici sul palcoscenico. Forse i suoi occhi furono l’unico sguardo della piazza di pura ammirazione.

La società governata dal principio maschile ha creato due comodi processi che ne eliminano la persona reale: la consacrazione / angelicazione della donna, connaturata a un ruolo familiare, o il suo opposto, la dissacrazione / demonizzazione. Per una donna c’erano normalmente due scelte, essere madre, custode del valore supremo dell’universo e culla della vita, o donna tentatrice. All’epoca la divisa ufficiale della donna madre era un grembiule sciatto che si allargava man mano che la pancia cresceva mentre alla donna diavolo erano permessi boa di struzzo, cipria e rossetto. «Una svalutazione in tutte e due i sensi», dice Rita.

Racconto di Rita Bertoncini

 

LA BICI RITROVATA

Circa dieci anni fa in corso Ercole d’Este mi rubarono la bici, a cui ero molto affezionato, essendo stata già di mio nonno.

Feci la denuncia e girovagai per due giorni per ritrovarla da qualche parte… poi rassegnato lasciai perdere. La domenica successiva andai a fare i soliti quattro passi in centro con il mio solito amico e… eccola lì in piazza Trento Trieste, proprio dove adesso c’è il gazebo di Listone Mag. Era legata con una grossa catena ad altre cinque biciclette!

Chiamai subito i carabinieri, ma nel frattempo arrivarono i ladri, che furono affrontati dal mio eroico amico, il quale, con molto aplomb, lì invitò a lasciare quella bici dov’era, in quanto «gli risultava rubata». I furfanti scapparono con tutte le altre bici e lasciarono sul posto la mia. Nel giro di pochi giorni me l’avevano ridotta ben male, ma per lo meno tornò in mio possesso, e lo è ancora!

Racconto di Marcello Carrà

 

I DADI TRAFUGATI

dadi trafugatiPassavo, in bilico sulla mia bicicletta, tra le grate del cantiere che  tracciavano stretti corridoi in piazza Trento e Trieste. La ruota della mia bici si inchiodò su un porfido, alzai lo sguardo e oltre la rete vidi una montagna, due, tre montagne di sanpietrini liberi e accumulati.

«Pensavo fossero più sottili – dissi tra me e me -, sono dei bei cubi!». Avevo già capito che avrebbero dovuto diventare dei dadi. Non esitai un attimo, raccolsi il porfido che bloccava la ruota e quello a fianco, li portai a casa e li colorati di bianco a pois neri, con i numeri giusti per ogni faccia. Due dadi. In realtà, adesso si può dire, in una delle sei facce c’erano scritte le regole di un gioco, ma bisognava sollevarli per leggerle. Avevo già tutto chiaro in mente: #dadicp e #cpdesign sarebbero stati gli hastag grazie ai quali chiunque li avesse fotografati e pubblicati sui social network avrebbe vinto un premio.

«Ci sarà sicuramente un buco per rimetterli a terra!», pensavo. Ebbene la fortuna volle che mancassero dei porfidi di fronte al Duomo, sul sagrato. Raccontai cosa avevo in mente ai soliti amici e durante una passeggiata in piazza, raccogliendo un pò di ghiaia con un bicchiere di plastica, riuscimmo a tappare il buco.

La mattina dopo lanciai il contest sui social network con la prima foto: «Chi trova i dadi, li fotografa, e inserisce l’hastag vince un premio». Dopo questo messaggio mi arrivano una ventina di fotografie, in realtà moltissime persone si fermavano a guardare ma non sapevano del gioco. I dadi erano bianchi in mezzo al buio, si vedevano persino di notte dalla webcam del Comune. Lo confesso, ogni tanto mi connettevo solo per vedere chi si fermava.

Anche l’assessore comunale ai lavori pubblici, Aldo Modonesi, rilanciò su Facebook l’iniziativa scrivendo: «alea iacta est». Il giorno dopo arrivò l’articolo sul giornale. Purtroppo i dadi rimasero in piazza solo tre giorni. Qualcuno – credendo che avessero un valore artistico – li prese in ostaggio e mi chiese su Facebook, da un profilo falso, un riscatto di 300 euro. Appena venni a sapere del furto andai a chiudere la fessura con altri due sampietrini “normali”. Il buco già c’era, è vero, ma è sempre meglio non rischiare che qualcuno si faccia male.

Dopo pochi giorni avrei dovuto consegnare i premi ai ragazzi che avevano partecipato. Dovevo prepararne molti, non pensavo sarebbero stati così tanti, e non potevo spendere una follia. L’unica soluzione era occuparsene personalmente. Dato che con i soliti amici mi diverto a costruire biciclette, decisi di realizzare degli orologi da parete utilizzando le corone dei pedali. Fortunatamente a casa ne avevo molte! Il nuovo prodotto è stato lanciato attraverso il video della premiazione. Da quella volta, oltre alle bici, io e i miei amici abbiamo cominciato ad appassionarci anche di orologi!

Racconto di Ciro Patricelli

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