Sabato pomeriggio, per il penultimo giorno del Ventennale della Libreria Feltrinelli, sale sul palcoscenico lo scrittore bolognese Gianluca Morozzi. L’atmosfera alle 17.30 del pomeriggio è già calda, c’è elettricità nell’aria. Nonostante l’umido della giornata la libreria piano piano si riempie. C’è il pubblico dei grandi eventi, le persone sono cariche di aspettativa e sicuramente nessuno di noi è qui per deluderli.
Noi, certo. Perchè oltre Gianluca, oltre lo staff della libreria e del Gruppo del Tasso, l’evento è impreziosito dalla band di Leonardo Veronesi pronta a fare da contraltare e accompagnamento alle letture di Alberto Petrelli. Contati Gianluca e me, siamo in sette per rendere speciale questo 29 Novembre.

Una delle cose belle di quando uno scrittore come Gianluca Morozzi viene a trovarci a Ferrara, è l’atmosfera di convivialità che ne esce, e anche questa volta non ci si sbaglia.

Accompagnato dalla chitarra di Leonardo Veronesi, Gianluca ci racconta la genesi del suo ultimo romanzo “L’Età dell’Oro”.

“Tutto nasce dal voler raccontare una biografia in maniera ironica e divertente, quindi nel libro immagino di raccontare i miei esordi letterari a quello che è il mio mito assoluto in campo fumettistico, Andrea Pazienza. Immagino di dialogare con il suo fantasma dopo essere rimasto chiuso nel bagno di un pub.” racconta Morozzi.

Che dire dei tuoi primi anni?

“Nel libro racconto dei miei innumerevoli tentativi di vincere concorsi letterari dei più disparati. All’epoca partecipai a circa ottanta concorsi e non ne vinsi nemmeno uno. Mi rimanevano solo due possibilità: o rinunciare a scrivere oppure continuare abbracciando completamente questa pazzia, siamo tutti un po’ folli noi scrittori, ma siamo brave persone.”

Ed è grossomodo in questo momento del pomeriggio che tutto cambia.

Complici le canzoni di Leonardo Veronesi, tratte prevalentemente dal suo ultimo lavoro “L’ Anarchia della Ragione” (presentate con estro da Gianluca stesso) e le letture ironiche e dissacranti di Alberto Petrelli, si accende l’interruttore on/off e avviene la magia.

Tutto perde la patina, certe volte un po’ inamidata, legata alla presentazione di un libro e si trasforma in uno splendido palcoscenico quasi da stand up comedy dove, tra risate e battute, veniamo trascinati in un turbine di ilarità e leggerezza. Dopo qualsiasi concorso possibile ed immaginabile per Gianluca è il momento del salto, nel 2001 esce per Fernandel,  “Despero”, e mi raccomando l’accento sulla seconda “e” che ci teniamo. Con questo romanzo tutto cambia e si inizia a ragionare davvero, lo stile tra l’ironico e il disincantato accompagna tutte le sue prime produzioni ( “Luglio, Agosto, Settembre Nero”  e “Dieci cose che ho fatto ma non posso credere di aver fatto, però le ho fatte” ).

Poi inizia quello che può essere considerato il corollario di ogni uscita editoriale: il tour di promozione.

Un Gianluca on the road promuove e presenta i suoi romanzi ovunque, copre praticamente tutte Italia. Grazie alle letture di Alberto Petrelli ripercorriamo, durante la presentazione, tutti i luoghi più strani dove “Lo ha fatto”, cioè dove ha presentato i suoi libri. Tra location improbabili come case di riposo, feste dell’unità, minuscoli pub deserti e persino al cinema tra fine primo tempo e inizio secondo del film e prima del fischio di inizio della semifinale dei mondiali Italia-Germania del 2006, il nostro pubblico ride e si diverte e anche noi facciamo fatica a stare seri con scoppi di ilarità che ci trasformano in un gruppo di amici, seduti al pub a raccontarcela.

Foto di Silvia Franzoni

Gli intervalli musicali di Leonardo Veronesi ci danno il tempo per riordinare le idee, ma la tranquillità e l’euforia continuano a dominare la presentazione. Gianluca ci racconta, tra i vari aneddoti, di quando ha dovuto fare una presentazione dentro il carcere di San Vittore, della difficoltà di spiegare cosa differenziasse il genere giallo dal noir ( il giallo è il bene contro il male, mentre il noir è il male contro il male minore ndr)

“Cioè?” aveva incalzato l’incontentabile sfregiato. (uno dei detenuti ndr)
“Eh” avevo detto, “finisce bene nel senso che c’è un’indagine e l’assassino viene preso e portato in…”
E su questo “in” mi ero fermato, incrociando il fuoco di fila di sguardi di venticinque detenuti del carcere di san Vittore, nell’angusta biblioteca del carcere di san Vittore.

(L’Età dell’Oro. La mia vita raccontata a Paz)

Arriva poi il momento di parlare di un altro suo romanzo fondamentale, una vera e propria pietra miliare nella sua carriera: Blackout, il suo primo thriller. Trascinato dagli aneddoti ne aggiungo uno mio di dieci anni fa.

Ho, infatti, un ricordo ben preciso legato a Gianluca e a Blackout. Nel 2004 lavoravo per la rivista on-line del comune di Ferrara, Occhiaperti.net, e mi occupavo della rubrica di letteratura.  Il  “Capo” aveva mandato me e una mia amica e collega a seguire un incontro con l’autore al Liceo Classico Ariosto. L’autore in questione era Gianluca Morozzi. Noi non avevamo la più pallida idea di chi fosse costui, però “perdere” la mattinata così ci sembrava una gran cosa, quindi di buona lena andammo a seguire questo incontro.

L’autore, allora poco più che trentenne, commentava prevalentemente due suoi libri: Accecati dalla luce, grandissimo romanzo ironico che racconta della sua passione per Bruce Springsteen (e già questo a me, fan sfegatato del Boss, sembrava una gran cosa) e un thriller, un libro strano ambientato tutto in un’ascensore a ferragosto, Blackout appunto.

Da dove è scaturita l’idea? 

“Blackout è un romanzo nato da un semplice what if (cosa sarebbe successo se), mi ero ritrovato proprio nel mese più caldo da solo in ascensore con alcuni vicini di casa a domandarsi: cosa potrebbe succedere se una di queste persone fosse un serial killer? Da questo alla calustrofobica narrazione di Blackout il passo era stato breve…”

Infatti questo è un thriller che ti tiene incollato alla poltrona fino alla fine in cui… quella mattina di dieci anni fa, Gianluca ci rivelò anche il finale del romanzo, svelando il geniale colpo di scena. Ci svelò il finale. Di un thriller. Poi ancora musica, ancora risate e ancora letture.

Praticamente in tutta la tua produzione lo scenario in cui si muovono i tuoi personaggi è Bologna, la tua città, con tutte le sue luci e ombre. Tuttavia nel tuo libro d’esordio, Despero, ci sono ben due momenti dedicati a città fuori Italia, Galway e Praga. A parte l’esigenza narrativa che è chiara nello scorrere del romanzo, come mai proprio quelle due?

“In realtà, adesso come adesso cambierei mete. Anche perché mi sembrerebbe poco probabile che una band di giovani bolognesi potesse andare in tour in Irlanda. Dieci anni fa la scelta era stata quasi immediata erano due luoghi che mi piacevano molto, Praga è una delle mie città preferite, mentre Galway, specialmente il sobborgo di Salthill, dove si ambienta una scena chiave del romanzo, mi sembrava perfetta per quel momento di catarsi della storia. Anche perché non essendoci mai stato ero convinto che davvero a Salthill ci fosse una collina, e la scena del romanzo ne avrebbe guadagnato. Poi ho scoperte che in realtà Salthill è un sobborgo sul mare, dominato da un ampio lungomare, niente colline. Dovetti modificare qualcosa nella scena…”

Sulle note di “Mina Vagante”, in versione acustica, il nostro incontro volge quasi al termine, rimane tempo per un’ultima domanda/riflessione.

In “La mia Pazzia”, uno dei racconti di “Confessioni di un Codardo”, Charles Bukowski scrive qualcosa di molto bello sulla necessità di scrivere e sulla volontà di essere scrittori: “(…) E se fra voi c’è qualcuno che si sente abbastanza matto da voler diventare scrittore, gli consiglio va avanti, sputa in un occhio al sole, schiaccia quei tasti, è la migliore pazzia che possa esserci, i secoli chiedono aiuto, la specie aspira spasmodicamente alla luce, e all’azzardo, e alle risate. Regalateglieli. Ci sono abbastanza parole per noi tutti.”

Bukowski aveva ragione Gianluca?

“Non potrei essere più d’accordo con il vecchio Buko. Lo scrivere spesso è un’esigenza,  un pensiero che non ti abbandona mai, una specie di follia latente. Anche quando non ci pensiamo è sempre li. Nel romanzo parlo dei “folletti sparaidea” per far capire proprio questo, quando meno te lo aspetti una di queste incredibili creaturine ti spara un’idea che ti colpisce in pieno e di cui non ti puoi liberare fino a che non la metti su carta. Può succedere in qualsiasi momento, è questo il vero problema di noi scrittori e delle difficoltà eventuali in una relazione fissa. Il fatto è che anche quando siamo presenti, anche quando le nostre compagne, o mogli ci parlano c’è sempre una parte di noi che non è esattamente li, che non è presente nel dialogo. Abbiamo sempre una parte che è assente nella quotidianità, una parte che continua ad arrovellarsi su come far evolvere una situazione nell’ultimo romanzo a cui stiamo lavorando.”

Forse siamo un po’ schizofrenici, forse un po’ pazzi, ma alla fine non siamo delle cattive persone… solo un po’ matti.

Battute finali. Leonardo Veronesi presenta la band come a fine di un concerto, io ringrazio Gianluca e Alberto (lettore d’eccezione), il pubblico, la Feltrinelli e il Gruppo del Tasso.

Applausi, bagno di folla.

Si spengono le luci sul palco.

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