«Facciamo un punto in due partite, poi le vinciamo tutte». Questo è il pronostico di Paolo Rossi sulle sorti dell’Inter, a poche ore dal derby milanese. Mi scusino tutti i lettori non interessati al campionato ma prima di entrare nel vivo dell’intervista all’attore, incontrato sabato 22 novembre al teatro De Micheli di Copparo, mi è sembrato prioritario trasmettere questa informazione non esattamente di servizio. Considerato il carattere centripeto dello spettacolo in cartellone, «Arlecchino», raccontarvi la serata cominciando con una divagazione calcistica non mi sembra fuori luogo. Lo stesso Paolo Rossi sul palco non ha fatto altro che divagare e divagare, saltando di palo in frasca con lo stile caustico che lo contraddistingue, accompagnato come già da qualche anno dai Virtuosi del Carso – «un gruppo che non ha bisogno di presentazione, ma di soldi».

Listone Mag – rappresentato nella fattispecie da me e il fotografo Giacomo Brini – lo ha incontrato prima della rappresentazione, nel suo camerino. Il volto abbronzato ma segnato e stanco, le gambette magre infilate nei pantaloni chiari. Appesa alla gruccia la giacca da Arlecchino postmoderno – nera e con tante pezze simili a postit. Sul tavolo un beverone biondiccio (Long Island? Banalissimo the alla pesca?). Si rompe il ghiaccio parlando della maschera, della commedia dell’arte: «l’idea di farmi vestire i panni di Arlecchino venne a Giorgio Strehler. Era il 1990 o il 1992, mi consigliò di interpretare questo personaggio nei modi che mi contraddistinguono, puntando sul monologo e sull’affabulazione. Quello a cui mi ispiro in questo spettacolo non è l’Arlecchino goldoniano. Goldoni ha irrigidito la drammaturgia per impedire che gli attori improvvisassero troppo. Io vorrei riportare la maschera in quella dimensione primitiva, sulfurea. Arlecchino – come Pulcinella a Napoli – andava e tornava dall’aldilà, dai sogni, dalla morte».
La spiegazione è attenta ma spossata, il comico ammette di non stare bene a causa dell’influenza e si augura di riuscire a tener botta fino al giorno successivo, per la tappa napoletana.

Foto di Giacomo Brini

Da quanto è arrivato? Quando riparte? Conoscendo i suoi trascorsi ferraresi – Rossi ha abitato nel capoluogo estense da ragazzo, dove ha frequentato l’Itis – pensavamo ingenuamente si sarebbe fermato a cena da amici, magari avrebbe potuto approfittare della data per una piccola gita o rimpatriata. Il tempo però non c’è: «sono arrivato oggi e riparto stasera, non mi fermo. Ogni tanto torno a trovare i vecchi amici ma non questa volta. Quando lo faccio è bello, il fatto che ci sia io diventa un po’una scusa per rivedersi tutti, persone che magari facevano la scuola assieme e che poi, pur abitando nella stessa città, si sono perse di vista».

Gli facciamo presente che un suo ex compagno di scuola, intervistato da Listone Mag in occasione del progetto “Backup di una piazza”, l’ha citato ricordando gli anni degli scioperi studenteschi e delle proteste davanti al Palazzo della Ragione. Lui legge l’aneddoto e sorride, chiede una correzione: «non è vero che ero particolarmente focoso, solo che in quegli anni ero piccolo. Nelle manifestazioni di prima eravamo solo in due, per questo sembravamo i più presi».

Sul palco, di quegli anni, racconta solo le glorie calcistiche, di quando giocava con l’Olimpia Quartesana e poi con la Vis Ferrara: «proprio a Copparo ho segnato uno dei tre gol che ho fatto in tutta la mia vita. Arrivavo correndo da metà campo, davanti alla porta ero talmente sfatto che ho visto tre porte, per fortuna ho tirato in quella giusta. Il portiere stava in quella sbagliata, ma questa è un’altra storia e magari ve la racconto dopo». Tra una chiacchiera e l’altra ci fa sapere che segue ancora la Spal, suo papà al telefono l’ha informato dell’ultimo ko a Forlì.

L’attore risponde con gentilezza, anche quando scherzando gli domandiamo se andrà a votare alle regionali – «non ci devo andare, comunque se devo dirla tutta non voterei». Gli chiediamo infine, sinceramente e umanamente, come sta. La voce è desolata: «ho tre famiglie e siamo quasi a Natale, devo fare il gioco del canguro, saltando di qua e di là. E’ un momento critico». Non osiamo aggiungere altro, dopo qualche minuto salutiamo e lo lasciamo prepararsi.

Ci ha impressionato vedere così affaticata e fragile una persona che da lì a pochi minuti avrebbe smesso di essere sé stessa per indossare i panni giullareschi e spumeggianti del saltimbanco. In fondo il suo Arlecchino – tra mille percorsi tortuosi, classiche gag di repertorio e nuove canzoni – parla proprio di questo, della difficoltà di riconoscere sé stessi quando la necessità o l’abitudine ci vincola alla maschera.

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