Traduzione di Sara Macchi

«Sembrava l’uomo più bello che fosse mai esistito»

Per la scrittrice Ali Smith una vacanza da favola con un uomo italiano di cinquecento anni è stata l’ispirazione per il suo romanzo “How to be both”. Lui si chiama Marzo e l’ha incontrato in un pomeriggio a Ferrara nel bellissimo Palazzo Schifanoia, conosciuto come il Palazzo dove non ci si annoia mai.

Tempo fa, era l’aprile del 2012, vidi una foto. Stavo sfogliando la rivista d’arte Frieze mentre facevo colazione. Mandai giù un bel sorso di caffè e aprii la rivista alla pagina di un dipinto talmente bello che dovetti ricordarmi di respirare, tanto rimasi senza fiato.

Ritraeva un uomo vestito di stracci, di colore bianco, sporchi e a brandelli. Paradossalmente sembrava che stesse indossando il vestito più bello e sfarzoso del mondo. La sua casacca era consumata ai polsi ma, allo stesso tempo, scendeva elegante sui fianchi, ornata da fiocchi, ondeggiante fino alle cosce, messe in evidenza dai pantaloni strappati e consumati, che lasciavano sporgere il ginocchio.

Aveva la pelle scura, forse era arabo o un italiano del sud. I suoi polsi e le sue braccia forti erano percorsi da vene in evidenza. Era, con ogni probabilità, un operaio o un uomo di fatica, ma completamente a suo agio e pronto a tutto, a qualunque cosa stesse per arrivare: un amico, un nemico, un amore, un lavoro. Teneva una mano sul fianco e l’altra reggeva la cima di una corda spessa legata intorno alla vita come una cintura. Alla cima la corda terminava con un pezzo sfilacciato, come a voler dire, guarda, non sono legato a niente, non sono lo schiavo di nessuno, ma se hai bisogno che io faccia qualcosa per te, ecco, prendi questa corda. L’altro capo della corda-cintura pendeva tra le gambe, e l’intera figura, un modello di forza, bellezza, orgoglio e di vigile attesa, era ferma in piedi come se fluttuasse in un campo blu profondo.

Vecchio? Sembrava vecchio, ma, allo stesso tempo, era moderno. Nella pagina di fronte c’era una piccola striscia rettangolare che assomigliava stranamente a una striscia di fumetti. Vi erano rappresentate tre figure che galleggiavano nello stesso blu favoloso, una dopo l’altra: l’uomo vestito di stracci, una donna bellissima in un abito rosso che sedeva veleggiando nell’aria, appena sopra la testa furbetta di una capra o di una pecora dal pelo arruffato con sopra immagini di cosa, un sole o delle stelle? La terza figura era un uomo giovane, o  forse una donna, vestito in modo più convenzionale, con abiti costosi, con un cerchio dorato e un bastone. No, era una freccia.

Chiamai dalle scale.

«Hai mai sentito di questo posto a Ferrara chiamato….»

Gettai un’occhiata alla rivista per vedere com’era scritto.

«Sch iff – a –»

«A Ferrara? Come nei romanzi di Bassani?» Rispondesti tu giù dalle scale.

All’epoca avevo letto, appena dopo le vacanze di Natale, un paio di romanzi tradotti in inglese del grande scrittore italiano del 20° secolo Giorgio Bassani, uno dei quali mi aveva tenuta letteralmente incollata durante un viaggio in treno verso Londra. Quel giorno scesi dal treno, andai a casa, e mi sedetti sul divano sempre con il libro in mano. Non riuscivo in nessun modo a smettere di leggere. Mi ricordai che avevo già letto una decina di anni fa il suo romanzo più famoso, Il giardino dei Finzi-Contini, e mi era piaciuto molto. Poi lessi quello che mi avevi prestato e rilessi subito il primo, entrambi appena tradotti in inglese dal poeta Jamie McKeindrik. Che rivelazione. Che libro duro e sorprendente. Che scrittore. Entrambi i romanzi erano legati profondamente a una piccola città italiana, Ferrara, e trattavano delle conseguenze delle leggi antisemite volute da Mussolini in una città dove la piccola comunità ebraica sembrava ben integrata.

Il dipinto della rivista sembrava un affresco. L’articolo di Jan Verwoert non diceva nulla dell’artista ma diceva molto su come Aby Warburg, il filosofo politico e critico dei primi decenni del secolo corso, aveva trovato il modo di analizzare la natura esoterica delle serie di dipinti del Palazzo, collocandone le origini in un mescolarsi di influenze est-ovest e nord-sud e in incroci di testi arabi e latini.

Per pura coincidenza, da un po’ di tempo, ero indecisa su come strutturare un nuovo romanzo. In una libreria di seconda mano avevo trovato un catalogo degli anni ’60 di un tour internazionale di affreschi del Rinascimento. Dopo le terribili inondazioni degli anni ’60 era partita un’operazione di restauro che consisteva nel rimuovere lo strato dell’affresco dalla sua parete, rivelando così per la prima volta, il disegno sottostante originale, il cartonato o la sinopia. Mi piaceva l’idea che questi primi disegni fossero lì, non visti, sotto la superficie del muro, che è l’essenza stessa dell’affresco. Fantasticavo sulla possibilità di scrivere un libro con la stessa struttura di uno strato e di un secondo strato.

«Andiamoci» dissi.

«Ok» rispondesti da basso « quando? »

Cercai gli orari del Palazzo Schifanoia.

«Ah, aspetta!»

A quanto pare era chiuso a tempo indeterminato, da quel che avevo capito.

Scossa di terremoto 5.9 sulla scala Richter. E poi un’altra ancora, 5.8. L’idea che un dipinto del genere potesse essersi danneggiato, o che non ci fosse più, la sola idea che un affresco di cui ero venuta a conoscenza solo un paio di minuti prima e di cui non sapevo assolutamente niente, potesse non esserci più, mi faceva soffrire.

«Di chi è?» chiedesti.

«Di Francesco del Cossa, dicono».

Scuotesti la testa.

«Chi?»

Mi misi a cercare informazioni su Francesco del Cossa. Non mi aspettavo di trovare così poche informazioni su di lui, perlomeno in inglese.

Pare che fosse nato nel 1430, in un anno in cui nessun sito internet è unanime. Sembra che fosse famoso per le opere di quel palazzo, commissionate da un duca ferrarese che voleva una sala periferica decorata con immagini ossequiose e dei mitologici. Internet sputò fuori qualcosa come dieci immagini, moltissimi testi in italiano, e non molto altro. Il poco che si sapeva, però, era intrigante. Mentre del Cossa era al lavoro a Palazzo Schifanoia, scrisse una lettera al duca chiedendogli più soldi degli altri artisti coinvolti nel progetto. Il duca rifiutò. In tutta risposta l’artista lasciò Ferrara imbronciato a si mise in marcia verso Bologna, dove una corte non c’era.

Non è che il pittore morì semplicemente a 40 anni di peste in un anno in cui nessun sito internet è certo, il fatto è che sparì proprio dalla faccia della storia. Vasari, il grande critico d’arte, ne sbagliò il nome e lo confuse con quello di Lorenzo Costa. Con il declino degli Estensi il palazzo fu venduto e si deteriorò passando di mano in mano, riconvertito prima in un capannone agricolo, poi in una fabbrica di tabacco. Un giorno, dopo 400 anni, una parte dell’imbiancatura si staccò dalle pareti e gli operai della fabbrica scorsero una faccia che faceva capolino attraverso le crepe. Si fece un restauro parziale di ciò che era sopravvissuto e le opere vennero attribuite ovviamente al pittore più famoso del Rinascimento ferrarese, Cosmé Tura.

Verso la fine del 1800, lo storico modenese Adolfo Venturi trovò in un archivio una lettura di richiesta soldi di un artista ad un duca. Pare che fosse la prima registrazione di una richiesta soldi da parte di un artista, o un ostentamento di vanità, a seconda di come la si guarda.

Io, Francesco del Cossa, sono qui a pregare vostra Altezza. Io, che feci questi tre spazi verso l’anticamera interamente da solo. Se voi, vostra Altezza, non volete darmi più di 10 bolognini per piede quadrato (unità di misura inglese che corrisponde a 0,092 903 04 metri quadri, ndr) perderò 40 o 50 ducati. Ho una reputazione e questo compenso mi mette allo stesso livello di un povero apprendista di Ferrara. Ho molti studi alle spalle e ho usato oro e colori di buona qualità a mie spese, facendo tutto a mo’ di affresco, si tratta di lavoro di alto livello.

Il duca, Borso d’Este, aveva fama di essere un mecenate generoso tra i suoi artisti e specialmente tra gente da cui ne richiedeva favori, come papi e imperatori. Il duca scrisse, ai piedi della lettera in latino, qualcosa come : Che venga pagato come chiunque altro.

Ferrara. A circa cinquanta chilometri da Bologna, fortezza medievale dalle alte mura nella Valle del Po, nella parte est della pianura dell’Emilia-Romagna. Malinconica, bellissima, profondamente immersa nella storia. Viene spesso chiamata la culla del Rinascimento. Famosa nel mondo per la sua cultura, conserva ancora la sua natura di piccola città, ma nello stesso tempo, a causa del suo piano urbano con le sue grandi mura circolari (iniziate nel tardo 15 secolo) e il suo mix di viali larghi e calli strette, venne definita da Jacob Burckhardt (uno storico svizzero, tra i più importanti del XIX secolo, la sua opera più nota è La civiltà del Rinascimento in Italia ndr) “la prima vera città moderna in Europa”.

Governata negli anni del Rinascimento dalla famiglia d’Este, i cui marchesi e duchi erano leggenda per la corte di pittori della Scuola di Ferrara, come Cosmé Tura e Ercole de’Roberti, e per scrittori come Tasso e Ariosto. Proprio il Tasso, poco letto al giorno d’oggi, influenzò fortemente Goethe, Milton, Byron e musicisti di ogni tipo come Scarlatti, Vivaldi, Liszt and Dvorak. Ariosto, dai lunghi e arguti poemi, brillanti e pieni di forza, come l’Orlando furioso – un poema epico di cavalieri e battaglie, di donne eroiche in armatura a dorso di cavallo, maghi nelle caverne, incantatrici, re e regine, perfino cavalli con le ali – motivo per cui abbiamo il Don Chisciotte di Cervantes e anche un po’ di Shakespeare.

Un altro figlio di questo Rinascimento fu il predicatore Savonarola, celebre per il suo fanatismo e per il rogo di libri che non gli andavano a genio.

I libri si bruciavano anche in passati più recenti, in un’epoca in cui visse l’angelo cronista più assiduo di Ferrara, Giorgio Bassani. Era giovane, ferrarese ed ebreo all’epoca delle leggi razziali di Mussolini del 1938. Scampò per un pelo alla deportazione, destino di molti membri della comunità ebraica di Ferrara. Tutti i suoi sei libri delineano la città e quell’epoca specifica molto meglio di come le vecchie fortificazioni delineavano la città.

Bassani raccolse i suoi sei romanzi in un’unica grande opera chiamata “Il romanzo di Ferrara”. Si dice che i lettori di Bassani possano andare in giro per la città servendosi delle sue storie e dei suoi racconti come una cartina. La fantasia delle sequenze e delle conseguenze della Storia in storie dove la maggior parte delle volte il tema è la decisione della città di chi includere e chi escludere, da parte del cronista più lucido e imparziale della città, è, alla fine, una dichiarazione d’amore.

Bassani non può non essere appassionato di Ferrara. Scrive in un’età più tarda della sua vita di questa relazione di appoggio paradossale alle “mura rosse”, in modo chiaro e diretto, di come la sua intera opera sia stata una carezza e un’esplorazione di ogni parte del corpo della sua problematica  città.

Come se non bastasse aver prodotto un artista di valore nazionale nel ventesimo secolo, Ferrara ha un altro figlio celebre: il regista Michelangelo Antonioni, noto per il film cult degli anni ’60 Blown-Up e per la trilogia europea sulla amoralità del dopo guerra con Monica Vitti, Jeanne Moreau and Alain Delon: L’Avventura, La Notte e L’Eclisse. La carriera di Antonioni inizia e si conclude con due film girati nella sua città materna, come Il suo primo, Cronaca di un amore (1950). Antonioni tornò a Ferrara dopo quasi cinquant’anni, con Wim Wenders e una macchina per la nebbia, per dare a Ferrara l’apparenza della sua propria malinconia nel film Oltre le nuvole, la sua ultima opera.

Accadde dopo un paio di settimane. Ero sul divano, e giravo su internet. Cliccai su una pagina, e tradussi alla meno peggio una pagina dall’italiano. Saltai in piedi e chiamai dalle scale.

«Palazzo Schifanoia ha riaperto!» Dissi. «O almeno, una parte. La parte con il dipinto che vogliamo vedere, nella Sala dei Mesi, penso che sia riaperto. E senti questa – Palazzo Schifanoia, tradotto, significa: palazzo che scansa la noia».

Nessuna risposta.

«Schifa noia: disgusto per la noia. Via dalla noia!»

«È quello che c’è scritto qui» dissi.

Nessuna risposta.

Scesi le scale.

Era metà pomeriggio e tu eri caduto addormentato alla scrivania, con i libri aperti tutti intorno a te.

«Dio se ci serve una vacanza» pensai.

L’albergo si chiamava L’annunziata. Era chic, comodo e incredibilmente economico. Si apriva su una piazza con un castello dal colore rosso-marrone, delle dimensioni di un dinosauro stiracchiato. Appena fuori della reception c’era una fila di sei fantastiche bici tutte curve a disposizione degli ospiti. Adriatica. Ne prendemmo due. Pedalammo giù per una strada e ne prendemmo poi una principale, pedonale, dove ciclisti e pedoni si muovevano insieme in una coreografia calma e aggraziata. La città si apriva calorosa e piena di grazia, il rosso e il giallo delle pietre dei muri di quelle che sembravano case tutt’ora abitate, la cui inespressività e alterità escludeva i passanti ma, nello stesso tempo, nascondeva giardini, fiori e uccelli all’interno. Le mura della città, con il loro viale alberato maestoso, e il suo percorso che gira intorno alla città in un arco di verde che non ha niente a che fare con un’Italia bruciata dal sole.

Senza saperlo passammo davanti alla tomba di Bassani nel bellissimo cimitero ebreo. Superammo la vecchia sinagoga (dove, in una delle storie di Bassani più rappresentative un uomo vestito di stracci venuto dai campi, avendo visto il suo nome su una lapide, disse all’uomo che stava incidendo i nomi, che lui non era morto).

Ci fermammo, a un certo punto, fuori da una grande casa la cui targa l’annunciava come quartier generale di qualcosa come la Società di Antonioni. Una camera di sorveglianza montata sulle mura ci aveva visti sbirciare il giardino attraverso il cancello.

Fuori dal castello comprai una singola ala di angelo in legno, dipinta in oro, leggermente più piccola della mia mano, in un banchetto di vecchi pezzi di legno appartenenti a una chiesa. La donna del banchetto lo incartò e chiese due euro. Dall’altro lato ci fermammo a guardare l’inquietante statua del Savonarola, incappucciato, che affrontava la città medievale in escandescenze, agitando le mani in aria come se fosse sul punto di lanciare una maledizione. Laggiù, nel 1943, presso il fossato del castello, tutti quelli “dalla dubbia fede fascista” furono radunati e fucilati.

Tra un’ala e una predica del Savonarola, pedalammo nella bellissima città fino a Palazzo Schifanoia.

Finora ho volutamente tralasciato di parlare del Palazzo, in parte perché non voglio raccontare a nessuno che cosa si prova a entrare nel Palazzo Schifanoia e vedere gli affreschi dei mesi, degli dei, delle stagioni. In realtà non è proprio così, l’altra parte di me vuole dirlo a tutti.

Da una parte non posso tacere su quanto benessere e calore mi procurò questa visita, solo il fatto di entrare nella stanza dei mesi. Ma dall’altra voglio rendere onore al segreto e alla tranquillità di Ferrara e non dire una parola, o almeno non troppe, su come arrivammo al Palazzo camminando lungo le mura di mattoni, e su come attraversammo la vecchia porta di legno e quella di vetro nuova di zecca, di come pagammo i nostri tre euro e ricevemmo i nostri biglietti con sopra l’immagine della Venere del Cossa, di come salimmo le scale, passammo oltre la tenda sopra la porta e di come fummo letteralmente trasportati (rinati?) in un una lunga stanza di luce oscura completamente vuota – ci tornammo molte volte ma non c’era mai nessuno, a parte noi, al massimo due o tre persone – ma allo stesso tempo piena di gente perché le mura erano coperte di vita, di colori, di figure aggraziate. In particolare i mesi di marzo, aprile e maggio, dipinti da del Cossa. Con le sue sole forze, il del Cossa aveva dato vita a un Rinascimento lontano dal suo primo realismo grottesco (è sufficiente guardare i lavori degli altri artisti nelle altre stanze). Era come assistere a qualcosa di shakesperiano, ma cent’anni prima della nascita di Shakespeare.

Una buona metà dei muri della stanza erano scoloriti. Solo sette dei dodici mesi erano sopravvissuti per intero – da marzo a settembre – perché erano stati dipinti a fresco, quel “lavoro di alto livello”, invece di essere dipinti a secco. Ogni mese ha il suo paradiso, al di sopra, e il suo mondo terreno, al di sotto, entrambi ricchissimi di dettagli. Gli affreschi di del Cossa sono realizzati con una grande bellezza ma anche in modo satirico. Forse non sorprende troppo il rifiuto del duca ad aumentargli il compenso. Basta dare un’occhiata all’immagine del palio locale (invaso da uomini pazzi in gara circondati da prostitute) e al duca con i suoi cortigiani a caccia (tutti intenti a condurre ciecamente i loro cavalli oltre il ponte su un crepaccio per poi cadere in profondità nelle rovine di una città spaccata e aperta. Certo, in apparenza, il paradiso mostra il continuo arrivo degli dei, circondati da decorazioni sulla fertilità e sulla creatività, e la terra al di sotto altro non è che un’adulazione del duca committente che elargisce regali tra la gente e dispensa giustizia, sempre circondato da artigiani, cittadini, cavalli, oche, conigli, cacciatori, lunghe distese di campi e fiumi, con la vista di torri in lontananza.

Ma tra il cielo e la terra c’è una striscia blu dove i pittori della stanza hanno collocato figure fluttuanti nell’aria, messi lì come simboli astrologici. Queste figure, nella loro configurazione, per mano impagabile di del Cossa, diventano qualcosa di magico. Non so come descriverli in altro modo.

E su quel muro, fluttuando nel blu, c’è l’opera persa e ritrovata dell’artista, dell’uomo che, anche se vestito di soli stracci, appare come il più bell’uomo del mondo. La stanza è ricoperta di duchi e cortigiani ma è lui la figura più potente. Non si discute. L’uomo che non ha niente possiede tutto.

Se uscite fuori dal Palazzo e vi girate a osservarne le mura dal bel giardino (dove c’è un bel ristorante gestito in collettività, tra l’altro) vedrete una lunga crepa sottile, a livello del tetto-come se il terremoto avesse voluto dare solo un colpetto, per il momento.

Che posto.

Che storia.

Il palazzo che scansa la noia.

Photograph: Heritage Image Partnership Ltd/Alamy.

Photograph: Heritage Image Partnership Ltd/Alamy.



Articolo in lingua originale:
http://www.theguardian.com/books/2014/aug/24/ali-smith-the-finest-man-who-ever-lived-palazzo-schifanoia-how-to-be-both

2 Commenti

  1. Silvana Onofri scrive:

    E’ Bassani il più grande agente pubblicitario di Ferrara, peccato che non lo si sappia valorizzare come meriterebbe

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