Conosco vite della cui mancanza
non soffrirei affatto –
di altre invece ogni attimo di assenza
mi sembrerebbe eterno.
Sono scarse di numero – queste ultime –
appena due in tutto –
le prime molto di più di un orizzonte
di moscerini

Emily Dickinson

La porta della casa di Denise è aperta, il corridoio è largo e in fondo intravedo la sua camera azzurra. Improvvisamente delle pareti colorate si staglia un insieme di capelli e un sorriso: è Alice.

Alice è partita per la Danimarca, dove ora collabora con uno dei luoghi culto per la formazione dell’attore di teatro contemporaneo. Non la vedevo da mesi, ma è raggiante come sempre.

Alice Occhiali e Denise Ania, infatti, presenteranno in anteprima il loro Apologia del distacco, all’interno della rassegna Un settembre coi baffi, iniziativa legata alla musica, al cinema, all’arte e alle nuove tecnologie che si svolgerà dal 26 al 30 settembre presso la villa Dante Bighi di Copparo. Il cortometraggio (proiettato venerdì 26 settembre, alle 21) vede la regia di Massimo Alì Mohammad e la produzione di Feedback Ferrara.

Come è iniziato questo cortometraggio?

«È iniziato con un laboratorio teatrale. Io e Denise avevamo delle idee, delle esigenze – spiega Alice -. È stato un percorso un po’ strano, dovevamo essere di più, poi di meno. Alla fine ci siamo trovati in quattro: io, Denise Ania, Andrea Fergnani e Attilio Imbrogno. Proseguendo il laboratorio abbiamo capito che il lavoro che stavamo svolgendo poteva benissimo sfociare in un corto». «Già, volevamo una testimonianza visiva di questo percorso, così abbiamo pensato a un corto di teatro danza, ma senza la pretesa di essere teatro danza! Nel senso che non volevano creare delle coreografie di danza perfettamente corrette, ci interessava qualcos’altro», spiega Denise. «Per esempio – interrompe Alice – come riprodurre la coreografia fatta in sala nel un vagone di un treno? Volevamo sfruttare il movimento e la coreografia a scopo di teatro. È nata prima la poetica, dunque. Poi ci siamo chieste come tradurla in maniera tecnica, così ci siamo rivolte a dei professionisti: Alessandra Fabbri per la danza e Massimo Alì Mohammad per riprendere le scene».

Denise, un piccolo passo indietro. Perché ti sei avvicinata al teatro?

«Perché mi incuriosivano le arti performative. Fin da piccola mi sono sempre guardata intorno e vedevo delle cose belle dove altri dieci occhi non vedevano niente. Le arti visive, le foto, il teatro, per me sono un tutt’uno. Tutte queste arti mi aiutano a trovare una poetica in ciò che mi circonda. Non volevo fare l’attrice, ecco. Il teatro per me è solo un ulteriore canale in cui ritrovare questa poetica, questo modo di vedere le cose. Ed è nel teatro che ho conosciuto Alice».

E tu, Alice, da dove provieni?

«Io vengo da un paesino piccolo in provincia di Ferrara. Sai quei paesini sperduti con le case lunghe piene di zie di una certa età? Ecco, io abitavo in una di quelle case, con mia nonna. È lì che è nato il mio spirito da animatrice di vecchie zie. Sai, ero un po’ sola da piccola, così per divertirmi mi travestivo per farle ridere. Ho sempre avuto ‘sta cosa. Però nasci in paese e non sai dove sfogare quello che hai dentro. Allora inizi a fare il macello. A prendere lezioni di canto mentre fai il liceo, con mille corriere da prendere. Poi cominci a voler fare qualcosa di più con il corpo, così inizi un corso di danza. Ecco, io quel corso di danza l’ho iniziato a vent’anni, tra l’altro, e la mia maestra è stata Caterina Tavolini, che in fondo è stata la maestra di tantissimi danzatori di Ferrara. Io, diciamocelo, non avevo le competenze tecniche di una ballerina, ma avevo necessità di comunicare. Lei mi ha sempre detto “prova col teatro!”, mentre tutti gli altri, famigliari vari, mi dicevano “cosa vai a fare teatro?” come prima mi dicevano “cosa vai a fare danza a vent’anni?”. Sai, la tipica mentalità di paese. Il caos è che in quella mentalità ci nasci e ci cresci. Va beh, inizio il Ctu, il teatro universitario, e scopro che per me il teatro è davvero il parco giochi! C’era tutto ciò che avevo sempre cercato. Poi il laboratorio con Pierangelo Pompa di Altamira, quello che ho fatto con Denise, è stata la prima cosa di un altro livello e mi ha fatto capire cosa volevo fare nella vita. Una volta finito questo laboratorio, abbiamo entrambe capito che dovevamo portare avanti questa esperienza. E Apologia del distacco è nato un po’ da tutto questo».

 

Foto di Eleonora Marchini

Parliamo appunto di Apologia del distacco. Perché apologia? Perché distacco?

Alice: «Apologia è un discorso a favore del distacco. Il distacco è visto comunemente come negativo, ma diventa positivo quando riesci a reinvestire in qualcos’altro ciò che quel distacco ti lascia. Io e Denise ci leggevamo le poesie di Emily Dickinson qui in camera. Le sue poesie sono solo numerate e non hanno titoli. Così, per gioco, abbiamo iniziato a dare dei titoli a quei versi bellissimi, e a un certo punto ci siamo accorte che messi insieme creavano una sequenza. Ritornava il tema della caduta, il tema del dolore… Ricordo alcuni quaderni pieni di appunti su queste cose. Questi titoli di una parola o due diventavano poi delle immagini: io ci vedevo una cascata, Denise una vetrina, altre parole invece creavano immagini che non erano né mie né sue, altre di tutte e due».

Denise: «Abbiamo fatto un discorso a favore del distacco non perché il distacco in sé sia bello, lo è invece il percorso che porta a un distacco. Nel percorso di parole inventate tornava spesso questo termine ed era sempre quando nella poesia c’era un momento di snodo, in cui avveniva un cambiamento. È proprio del ciclo naturale di vita e morte quel momento di non ritorno, quel punto di distacco. Abbiamo voluto parlare delle relazioni, ma delle relazioni intese non solo come “la coppia”. Le relazioni si trovano in amicizia, nel legame con un oggetto, nell’amore per un nonno. Volevamo parlare della sensazione della relazione e del suo venir meno un attimo dopo, non della storia d’amore in sé, di “quello che lascia quell’altra”. Il distacco risulta allora coincidere con la comprensione assoluta delle cose, perché per la prima volta guardi quella situazione da fuori. Diventa un momento di cognizione assoluta».

Alla regia del corto è firmata Massimo Alì Mohammad. Come avete deciso che era proprio lui il regista perfetto per il vostro lavoro?

Alice: «Un giorno Denise mi dice che alla Feedback conosce uno bravo che sarebbe da capire se è interessato alla nostra cosa. Lo contattiamo e lui ci dà appuntamento. Per sembrare più professionali ai suoi occhi, ricordo che avevamo preparato pure le cartelline con dentro i nostri appunti e vaneggiamenti vari. Per farti capire quanto eravamo agitate…».

Denise: «Dì pure che ci stavamo per scannare fino a dieci secondi prima di entrare da Alì!».

Alice: «Sì si, è vero. Madonna! La mia convinzione era: “questo ci manda a fanc*** quanto prima! E invece no, anzi, gli piacque pure. Disse: “va bene, lo facciamo. Ho capito benissimo la vostra idea”».

Denise: «Ed era vero! Oltre alle riprese, anche il montaggio è un linguaggio a sé e Alì ha capito le nostre esigenze al meglio. Noi gli abbiamo spiegato il concetto e lui l’ha fuso nel video. È stato un traduttore eccezionale».

Quale insegnamento può avervi dato questo lavoro?

Denise: «La nostra felicità assoluta è stata, prima ancora del video, fare il laboratorio. Questo ci ha insegnato il prendere un impegno, fare una cosa fissa senza scusanti. C’era lo spazio da aprire, chiudere e lavare. Tutto sta nel mettersi nelle condizioni di fare».

Alice: «Le cose belle si fanno col tempo e con l’impegno, anche se non si è professionisti. Bisogna metterci dedizione e motivazione. Solo così le cose riescono».

Mentre parla, penso ad una immaginaria Alice da piccola, tra le zie delle lunghe case di Sabbioncello San Vittore e la ripenso ora al teatro di Holstebro, dove dalle otto di mattina alle otto di sera allena il suo corpo e indaga il suo personaggio. Come dice lei, il tempo e l’impegno.

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