Non so se abbiate mai provato a camminare sul marciapiede di Corso Martiri della Libertà, dal lato del Castello, e, provenendo da Corso Giovecca, passare davanti al Teatro Comunale, arrivare all’altezza dell’incrocio con Vicolo Chiuso del Teatro (dove c’era il negozio Baccarà) e lì alzare la testa, fissare la prima finestra al primo piano dell’edificio. Io ho iniziato a farlo qualche anno fa, dopo aver letto “Una notte del ‘43”[1] di Giorgio Bassani, e visto il film di Vancini ispirato al racconto.

“Il marciapiede che ogni vero ferrarese evita”[2], lo definisce Bassani, raccontando una delle vicende più tragiche e note della nostra città, appunto quella notte tremenda del 15 novembre ’43 dove undici cittadini ferraresi furono trucidati da un manipolo di fascisti, in risposta all’uccisione di Igino Ghisellini, federale del costituendo Partito Fascista Repubblicano.

Sabato sera, partendo da Piazza Castello e arrivando proprio lì, in quel punto, ha avuto luogo un’azione teatrale organizzata da Ferrara Off Teatro, evento che ha inaugurato la Giornata Europea della Cultura Ebraica, dal titolo “Donna Sapiens – La figura femminile nell’ebraismo”. Quest’anno Ferrara ha avuto l’onore, infatti, di essere scelta come città capofila di questo evento, organizzato dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI), che ha visto coinvolti trenta paesi europei e più di settanta località italiane, attraverso mostre, conferenze, spettacoli, concerti e visite guidate.

E così Monica Pavani e Marco Sgarbi, ideatori e protagonisti di questo spettacolo, hanno guidato un lungo corteo, composto da un centinaio di persone, intorno al Castello, partendo dalla Piazza “dove c’è il cannone” e circumnavigando il grande monumento cittadino, per finire proprio lì, su quel marciapiede maledetto, davanti a quella farmacia, teatro di quest’orrore, per sempre luogo sacro, cuore della memoria. Un corteo vivo ma composto, simile a una processione, l’ennesimo omaggio della cittadinanza a quei martiri, che la storia ha voluto scolpiti in eterno nelle nostre coscienze, su quella fredda pietra antica, lungo quel marciapiede. Le “piccole targhe marmoree”[3] lì scolpite, che a malapena si notano, lungo quel tratto dell’ex Corso Roma infondente un timore quasi inconscio.

Armati di leggìo e microfono, i due attori sabato sera, poco dopo le 22, hanno dunque rinnovato l’appuntamento con quella vicenda, cercando di far rivivere le emozioni, lo strazio, le parole di quella notte, di quegli anni. I tormenti e le riflessioni non solo dei protagonisti, reali o immaginati da Bassani e da Vancini, ma di un’intera città, di un intero popolo, quello italiano, lacerato da una guerra civile che altri lutti annunciava in quei mesi del ’43.

Interpretando magistralmente le parole del racconto, Sgarbi – ottimamente accompagnato dalle spiegazioni della Pavani – è riuscito nell’intento di ridare corpo e sangue a quelle voci, a quei silenzi, a quelle pietre, a quelle finestre che rimangono, al pari dello stesso Castello, sacrario civile per ogni persona, cuore celebrativo dell’anima di una città, di un popolo che sa il rispetto della vita, e sa dunque riconoscere e rigettare ogni affronto alla libertà.

Quella finestra lassù, dicevamo, sopra l’insegna della “Farmacia Navarra”. Quel luogo intimo, privato, seppur in zona centrale, spazio che si vuole appartato, che Pino, il protagonista trasforma nel suo eremo, nella sua tomba. Un luogo famigliare e invisibile agli occhi esterni che diventa il fulcro della Storia, punto privilegiato dal quale vede oltre senza esser visto – “controllore perpetuo del passaggio lungo il marciapiede di fronte”[4] -, che illumina rimanendo nel buio, che conosce la realtà senza testimoniarla, che sa la verità senza saperla dire. Angolo del nostro Novecento, dunque, emblema dell’accidia, simbolo della paura, dell’ignavia, di una passività collettiva, stanza dove la libertà rimane una possibilità, la liberazione, un’avventura troppo temeraria.

“Una rapida sventagliata della mitragliatrice fascista”[5], racconta Bassani, l’apice di una notte di terrore. Monica Pavani ha ben sottolineato come la minaccia abbia costretto le persone, durante quelle “lentissime ore”[6], a non vedere distintamente, e dunque il solo udire abbia accresciuto ulteriormente l’angoscia. “Fu per tutti una veglia angosciosa, interminabile: con gli occhi che bruciavano fissi a scrutare attraverso le fessure delle persiane le vie immerse nel buio dell’oscuramento, col cuore che ogni minuto sobbalzava al crepitio delle mitragliatrici o al passaggio repentino, anche più fragoroso, dei camion carichi di uomini armati”[7].

Così, il racconto di quella notte diventa, nelle parole di Bassani – trasmesse con trasporto da Sgarbi -, anche un viaggio dentro le case dei ferraresi, nella loro quotidianità celata e stuprata, nelle abitudini non più insignificanti, ma che diventano anch’esse frammenti di storia, camere, corridoi, briciole e tovaglie, spazi che diventano pubblici, ambienti di orrore e vergogna, di strazio e di rabbia ma luoghi dove si può scegliere di cambiare o no la vita propria e degli altri. Una “polifonia” (per usare le parole della Pavani) che Bassani scolpisce magistralmente, rappresentando tutte le voci che si affastellavano in quei mesi, in quei giorni, in quegli attimi.

Foto di Sandro Chiozzi

“Nessuno andò a letto, nessuno pensò a dormire. Non ci fu ferrarese, insomma, che non temesse di vedere invasa la propria casa. Ma fu soprattutto negli appartamenti della borghesia cittadina che si parlò e discusse come non mai.

Che cosa stava accadendo? Che cosa sarebbe accaduto?

È vero – ragionavano, seduti senza far niente attorno a quei medesimi tavoli da pranzo dove a una certa ora si era invano tentato di cenare come ogni sera, e che poi erano rimasti così, mezzo sparecchiati, le tovaglie sparse di briciole e ingombre di piatti sporchi -: la città risuonava di colpi d’arma da fuoco, di lugubri canti che parlavano di morte e di cimiteri”[8].

L’azione teatrale, come dicevamo, termina tra la farmacia e le lapidi. Come sempre volgo lo sguardo in altro e la finestra, al passaggio della folla che ha seguito i due attori, si spalanca, alcune persone si affacciano, si svela l’interno con soffitto di legno e magnifici affreschi. Rinfranca, ogni volta, vedere tante persone radunarsi lì, sempre lì, imperterrite, calme nella propria ostinazione. Mi riaffiorano alla mente, nello scrutare i volti di questa gente, alcune righe del racconto, e alcuni fotogrammi del film. La danza macabra, la “breve, orribile danza tutta sussulti e contorsioni che nell’attimo della morte senza dubbio compirono, prima di cadere esanimi uno sull’altro”[9]; e l’impressione che può dare, sul finir della notte, arrivare a piedi, come Anna Repetto, moglie del farmacista, notando come i cadaveri “di lontano non parevano nemmeno corpi umani: stracci, bensì, poveri stracci o fagotti buttati là, al sole, nella neve fradicia […], quelli che, caduti abbracciandosi, facevano tuttora uno stretto viluppo di membra irrigidite”[10].

Quest’abbraccio è come un suggello, l’estremo istintivo atto umano del conforto, il gesto pietoso, straziante di chi non rinuncia, neppure gli ultimissimi atti della propria esistenza, a cercare un corpo fratello, per sentirsi meno solo.

“Orrore, pietà, paura folle: c’era questo nell’impressione che l’annuncio dei nomi dei fucilati suscitò in ogni casa”[11]. In questo ennesimo, indimenticabile passaggio del racconto di Bassani, ho ritrovato il senso di quell’abbraccio e di quella storia. Orrore e pietà messi dall’autore così vicini, anch’essi quasi ad abbracciarsi. L’orrore senza pietà sarebbe pura disperazione (tanto delle vittime, quanto dei carnefici), la pietà senza orrore non sarebbe autentica, ma mero sentimentalismo.

E ho dunque, infine, ricordato le immagini della mattina di quel 15 novembre, “donne che urlavano e piangevano, uomini che imprecavano”[12], quella sequenza della “lunga notte” di Vancini che i presenti hanno potuto rivedere grazie alla proiezione, a fine spettacolo, dell’episodio dell’eccidio su una facciata del Castello. Venti secondi, una lunga carrellata sui volti delle persone radunatesi intorno ai morti, in quella tensione irrisolvibile tra pietà e orrore. Quei volti che non possono nascondere il dolore e la rabbia, la loro umanità. Quei volti che, negli anni successivi, non si nascosero dietro una finestra, non tacquero le parole che andavano dette. Anni nei quali esplose la spirale di morte, il male che risponde al male, ma anche anni nei quali, nonostante tutto, l’abbraccio di tante persone permise a tutti noi di scegliere se vivere o no da uomini liberi.

 

Disegno di Florio Piva, ricordo della mattina del 17 novembre 1943, mentre andava a scuola bambino

Disegno di Florio Piva, ricordo della mattina del 17 novembre 1943, mentre andava a scuola bambino, gentilmente inviatoci dall’autore

[1] Giorgio Bassani, Una notte del ’43, in Id., Il romanzo di Ferrara, Vol. I, Arnoldo Mondadori, 1991.

[2] Ivi, p. 152.

[3] Ibid.

[4] Ivi, p. 179.

[5] Ivi, p. 151.

[6] Ivi, p. 163.

[7] Ibid.

[8] Ivi, p. 164.

[9] Ivi, p. 152.

[10] Ivi, p. 166.

[11] Ibid.

[12] Ivi, p. 170.

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