C’è un effetto collaterale insopportabile, nella sovraesposizione mediatica delle nostre vite odierne sui social network. Lo sviscerare ogni lamento o sensazione o fremito sulle bancarelle virtuali erode ogni filtro tra quello che siamo e quello che facciamo, dove il fare comprende anche il pensare. Tra quello che siamo e quello che vediamo, dove il vedere comprende anche il sentire. Una specie di Allegro Chirurgo permanente, dove al posto del bip ferale che partiva quando la pinzetta incontrava il bordo metallico, oggi si sente il suono della notifica dei like. Siamo passati da essere prestigiatori inconsapevoli del sentire umano ad attori consci di recitare un copione (non ancora scritto, peraltro). Sappiamo le regole del gioco, insomma, e oltre a barare, abbiamo questa smania di codificare tutto: le simmetrie di Wes Anderson, i passaggi riusciti di Pirlo, i modi per fare una cacio e pepe da favola. E non ammiriamo più Wes Anderson e basta, Pirlo e basta, la cacio e pepe e basta. Come se ci fossimo ridotti a guardare Lost sapendo già cosa si nasconde dietro al Progetto Dharma. Non solo. La situazione è un po’ più complicata: se infatti una volta bastava una canzone, un gruppo musicale, un’abilità o un talento, per definirci e alzare le code dei nostri pavoni, oggi grazie alla tecnologia e ai social network attingiamo anche dai luoghi che viviamo, attraversiamo, assaggiamo. Luoghi che usiamo per autodefinirci, come fossero un vestito nuovo, un taglio di capelli particolarmente riuscito, il nostro master all’estero. Oggi ci sono anche le città, e i loro segreti, nei nostri curriculum e nel colore dei nostri capelli. E vale anche per Ferrara, per i ferraresi e (forse ancora di più) per i non ferraresi, pronti a taggare i luoghi della memoria e dell’ego, che si fondono a delineare il nostro immaginario visivo ed emotivo. Questa è Ferrara, questo sono io. Questa è una cosa di Ferrara che conosco solo io. Questo sono due volte io.

Uno dei posti più belli di Ferrara mi è tornato in mente anche grazie a una persona non ferrarese. Lo conoscevo, sì, ma più per sentito dire e per la sua (apparente) aristocratica discrezione che emanava. La percezione di cosa nascondesse quello scrigno silente in una delle piazze più silenti e defilate, sebbene centrale, di Ferrara mi era però arrivata grazie a un consiglio da fuori Ferrara. Non c’ero mai entrato prima, e solo la gelosia ha innescato la curiosità di varcarne la soglia. Ogni volta che una persona che non è della mia città si dimostra più ferrata di me in materia, ecco, mi sento un po’ come si sente un padre verso la figlia 16enne che esce per la prima volta da sola con un ragazzo il sabato sera. Perché non l’avevo scoperto prima io, che ferrarese sono nelle radici e nell’indole? Perché qualcun altro si faceva bello con una perla della mia città? E’ il secondo effetto collaterale della bellezza ai tempi degli anni Dieci: l’esclusività.

Il colpo di grazia emotivo avvenne in un preciso istante: quando appunto ci entrai davvero, in questo posto. Ufficialmente, a prendere un caffè, in realtà a deporre la bandiera del mio ego in un territorio che sentivo mio. Torrefazione Penazzi 1926. Io non so nulla di caffè, eppure bastò un gesto, solo uno, per sciogliermi e farmi irrigidire allo stesso tempo: un colpo di pennello a pulire il filtro, prima di caricarlo della polvere magica e innestarlo nella macchina del caffè che mi avrebbe fatto dono di un espresso. E poi un altro, che col caffè centrava poco ma diceva molto della civiltà e della cura, un bicchiere d’acqua offerto. Questa è Ferrara, ho pensato, e questo ora è anche un po’ mio. Sono due dettagli, due bagliori che irradiano la trama oscurandola. Due instagram di una storia che merita pazienza e ascolto, e ovviamente una buona tazzina di caffè. Ricominciamo da capo.

Forse per misurare il grado di civiltà di una comunità di persone è sufficiente entrare in un bar e chiedere un caffè. E aspettare. Se, nel momento in cui viene presentato l’espresso, accanto alla tazzina viene posto anche un bicchiere d’acqua (grande o piccolo non conta, contano le intenzioni, come sempre), saremo presenti all’interno di una comunità o molto ruffiana o molto gentile (estremizzando): in entrambi i casi, rivolta al prossimo. Nel caso invece di un espresso triste e solitario, ecco, sarebbe magari il caso di farsi qualche domanda sulla città in cui si è finiti. Non dappertutto il caffè viene servito accompagnato dal bicchiere d’acqua in maniera spontanea, a Ferrara, anzi, parecchi sono gli esercizi dove bisogna chiederlo esplicitamente. Non si devono trarre conclusioni da un semplice gesto, la cortesia non si misura soltanto con bicchieri d’acqua, ma forse sulla cura dei dettagli di quel bar, e di quella città, sì.

C’è un posto in questa città dove il caffè non è una tazzina di caffè e basta, ma un rito preceduto da un’altra miriade di micro-operazioni delicate, meticolose come una nonna che compra l’aranciata soltanto quando viene suo nipote a pranzo. Operazioni infinitesimali che magari migliorano in modo soltanto impercettibile al palato il sapore del caffè, ma sicuramente fanno sentire meglio sia il cliente, sia, io credo, chi le compie. E’ un posto dove il filtro della caffettiera viene spazzato con un colpetto di pennello, gesto spontaneo quanto assimilato, un posto dove la caffettiera ha una forma sferica, avvolgente, e non rettangolare, quasi fosse uscita da un film di Miyazaki con la sua forma alta, affusolata, dalla cromatura brillante e risoluta. Repubblica ha inserito questo posto, la Torrefazione Penazzi 1926, tra le dieci migliori d’Italia, per dire, e sinceramente di tutte le meraviglie di Ferrara, il caffè non avrei mai pensato potesse farne parte. Ci sono però gli effetti collaterali, da tener conto, in tanta raffinatezza: essere portatori sani di bellezza infatti non è così scontato, e anzi, in tempo grigi la bellezza rende i timorosi diffidenti, arcigni, chiusi. Posti di eccellenza come la Torrefazione Penazzi non esaltano soltanto le mie papille gustative, ma non fanno altro che aumentare quel rapporto perverso che confesso di avere con la mia città, e che risiede appunto in quelle tre lettere: “mia”. Ferrara è mia, e i posti belli di Ferrara li conosco io, e solo io so svelarli agli “stranieri”. Si può essere gelosi della propria città, al punto da risultare quasi infastiditi (non lo ammetteremo mai, se così fosse, del resto) quando i segreti nascosti vengono carpiti anche da chi ferrarese non è?

Foto di Lucia Ligniti

Più Alberto Romanini, l’attuale gestore assieme a Sonia Caselli del punto vendita in Piazza della Repubblica, mi spiega la storia della Torrefazione, più sento ribollire quel senso di possessività verso Ferrara, la mia città che solo io (dovrei) conoscere. Siamo nel giardino segreto del caffè a Ferrara, in una posizione che bisogna conoscere, per entrarci, e difficilmente si nota passeggiando distratti. In qualche modo bisogna esserne attratti magneticamente, come se un filo invisibile ci tendesse verso la tazzina di caffè. La storia stessa della Torrefazione, si basa su un filo invisibile che porta a confondere il Caso con la Predestinazione: «Anni dopo l’apertura del punto vendita abbiamo scoperto che dal 1926 fino agli anni ‘60 c’era già stata una torrefazione, di una famiglia ferrarese. Nel 2006 li abbiamo contatti e abbiamo chiesto di usare il loro marchio storico. Era destino, insomma». La Torrefazione si è poi trasferita (come vedremo), in centro è rimasto lo spazio per la degustazione. «Ci riforniamo soltanto da artigiani, sia per il caffè che per tutti gli altri prodotti in vendita» spiega Alberto, «tenendo conto che Ferrara è particolare, un po’ avversa alla novità. Solo il 10% dei nuovi clienti chiede qualcosa di nuovo, quando entra».

La quantità di caffè disponibile arriva anche sulle quindici tipologie, provenienti da tutto il mondo (Africa, Sudamerica, caraibici, India), affidandosi a importatori italiani. Come vengono scelte? «Non ci interessava fare il bar con la classica miscela: ce l’abbiamo, ok, ma a livello di palato, di gusto, è tutta un’altra cosa. “E’ buonissimo”, mi dicono al primo assaggio, e noi rispondiamo: “Ecco, questo, è caffè”». Questa ricchezza viene percepita, dai ferraresi? «Abbiamo la fortuna di avere una clientela “giovane”, dai 50 anni in giù, con un certo tipo di gusto, curiosa. Alcuni vengono addirittura col proprio taccuino, segnandosi tutte le tipologie di caffè che provano di volta in volta. E Masterchef, la cultura del cibo, ci ha aiutato…». Una ricchezza nascosta, che si diffonde senza fare pubblicità: «Chi viene, poi torna. E porta nuovi amici. Ci piace farci scoprire. Non proponiamo subito tutti i nostri caffè, non li vogliamo mettere in crisi. Siamo sul Gambero Rosso da anni, il turista ha la guida e ci scopre. Il ferrarese fa più fatica a trovarci. Durante i Buskers ci sono clienti che tornano, periodicamente, anno dopo anno. Ma all’inizio non è stato facile vincere la diffidenza della città verso se stessa, un po’ chiusa quando deve provare qualcosa di diverso».

«Proponendo arabiche, tendi a dare prodotti con un’acidulità tipica, quindi tu sai che vai incontro a un tipo di prodotto che ha più o meno spiccatamente caratteristiche acide, più o meno accentuate. Poi subentra la variabile della corposità, più leggero, più intenso. Poi andiamo sullo speziato, fino ad arrivare anche a tipologie di caffè non acidulo, poco dolce. L’Haiti, per esempio, ricorda l’amaro del caffè, molto accentuato, intenso». Un orgasmo di aggettivi per definire qualcosa di impalpabile, in fondo. Il caffè, noi stessi. Alberto però sembra convincente: «Il palato si può educare. Ti posso far sentire caffè più o meno acidi, più o meno dolci, a forza di assaggiare si impara a riconoscerli. Se non sei curioso, i clienti se ne accorgono. E noi i caffè li scegliamo così, assaggiandoli noi stessi e facendoci guidare dalla curiosità e dal gusto nostro e della clientela. Dobbiamo divertire il cliente, sia giovani che anziani. E alcuni caffè non son stati capiti, per dire, anche se per noi magari erano ottimi: bisogna addentrarsi nei meccanismi “strani” della mente dei ferraresi». E infatti ce ne sono diversi fedeli, che tornano, che per farsi belli con amici o colleghi, li portano a bere il caffè qui: un vizio, uno sfizio. Divertente anche per chi sta dietro al bancone: «Ci vuole tanta pazienza, devi lasciarti i problemi fuori, ma se non ci divertissimo non andremmo avanti. E ti dirò, i turisti non li amiamo molto, alcuni entrano con la guida turistica in mano, con un atteggiamento di sfida, “vediamo se è buono questo caffè”. E incidono anche pochissimo a livello di bilancio». I ferraresi, invece, entrano alla Torrefazione cercando domande e risposte, allo stesso tempo. «Siamo io e Sonia dietro al bancone, non abbiamo dipendenti. Cerchiamo anche di fare gli stessi orari, io alla mattina, lei al pomeriggio, perché chi viene a una determinata ora sa chi troverà, per trovare una faccia amica».

Arrivo poi alla domanda fatidica: ma come si fa IL caffè? Alberto allora va in scena, come se recitasse a memoria una poesia, la formazione dell’Inter di Herrera, Sarti, Burgnich, Facchetti, come se l’avesse assimilata dentro di sè. «Filtro. Lo battiamo, lo puliamo col pennello per evitare residui del caffè vecchio che darebbe note aromatiche diverse. Ogni tipologia viene macinata sul momento. Prendiamo l’Haiti, è un monorigine, non è mescolato ad altre varietà di caffè, allora lo pesiamo (8 grammi circa per tazzina). Questo macinacaffè non è a macine coniche ma piane, quindi abbiamo riscaldamento differente sul caffè, ininfluente sulla miscela classica, ma sul monorigine come l’Haiti si fa sentire. Parto con la macinatura (fine in questo caso), nel frattempo do un colpo al filtro, rimuovo il residuo, non lo do sempre perché questa è una macchina semi automatica, se lo facessi sempre dovrei spendere soldi in manuntenzione dei motorini elettrici, e comunque è sempre pulita. Poi lo pressiamo. Ok. Con una piccola botta laterale al filtro lo pareggio. Uso un pressino dinamometrico, la molla mi dà 19kg di pressione ottimale, uniforme per qualsiasi operatore. Aggancio. Faccio partire la macchina, è moderna ma è una riproduzione di un modello degli anni Venti. Ecco, è questo il caffè». E l’eterno dilemma zucchero sì/no? «Un po’ di zucchero ci vuole, rafforza le note aromatiche del caffè. Ma io lo bevo amaro. Io suggerisco solo mezza bustina». Ecco.

Foto di Lucia Ligniti

Non so nulla di caffè, ci ho capito bene poco a dire il vero, e Alberto finora me ne ha parlato come se fosse vino. Il parallelo lo conferma anche Alberto Trabatti, il vero demiurgo (bolognese) della Torrefazione, che vado a trovare nella nuova sede, dal 2009 per ragioni di spazio staccata dal negozio in centro dove è rimasta la vendita: un po’ per capire tutto il resto della storia, soprattutto per infilare le mani in uno di quei cestoni ricolmi di chicchi di caffè appena tostati. «Prima di essere un torrefatore, ho smesso di credere al caso», precisa con sguardo sottile da bambino impertinente sotto i baffi. «Andavo a fare la spesa a Bologna con mia mamma e il profumo del caffè macinato unito al tepore del cassetto aveva un che di fascinoso, su di me, e negli anni a seguire facevo sempre la moka, studiavo le miscele sui libri». Caffè a miscela curiosa, che lo portò poi a Ferrara, e a lasciare poi il suo impiego in banca, dove «pensare era una minaccia». Inizialmente voleva aprire una galleria d’arte, nel negozio in Piazza della Repubblica, sulla scia del portale online ‘Art Life’ «che avevo fondato nel 2000 con il critico Valerio Grimaldi». Ma nel dicembre 2004 inaugura la Torrefazione, con il primo cliente che, guarda caso, «ordina un decaffeinato». Si fece strada con una domanda rivoluzionaria per un rito certificato come quello del caffè: «La gente si sentiva chiedere se voleva scegliere il caffè, e la mettevamo in imbarazzo. Ma col tempo ha apprezzato questa libertà». Dopo due mesi dall’apertura trovano in un antiquario una targa che recita: “Torrefazione igienica e giornaliera del Caffè Penazzi, piazza Vittorio Emanuele 27-29, Ferrara”. Ovvero Piazza della Repubblica, «la nostra piazza, con gli stessi numeri civici». Un brivido lungo la schiena, «abbiamo capito tante cose, è stata l’accelerazione – spiega mentre ci spostiamo tra i suoi quadri e le macchine fotografiche – che ci ha spinto ad andare avanti: abbiamo rintracciato gli eredi, i ferraresi Penazzi, commossi quando hanno saputo che avremmo riportato in auge il loro marchio storico». Una missione per conto di Penazzi, «credo che si era stancato che si potesse bere un caffè di bassa qualità a Ferrara», alimentata negli anni dallo studio, dai confronti.

Il caffè diventa un manifesto, ci si finisce per specchiarsi dentro, e i fondi non servono per leggere il futuro ma le nostre intenzioni: «In Italia – è la teoria di Alberto – un numero enorme di torrefatori quando si rivolgono ai baristi non gli chiedono di assaggiare al caffè, e viceversa i baristi non chiedono al torrefatore perché faccia questo mestiere, ma ci si concentra sui costi delle attrezzature, fanno firmare contratti vincolanti a prezzi e quantità stabilite di caffè. E i costi così aumentano, e al barista non interessa avere il caffè migliore, ma rientrare dalle spese. Si apre un’attività in proprio per poi finire ad essere trattati da dipendenti dai fornitori, diventando meri espositori della loro merce: non conta il caffè, il rapporto di fiducia col cliente, conta la lavatazze, le tazzini, quanti piattini mi dai. E’ qui che nasce la differenza fondamentale tra caffè da battaglia e il caffè. Il mio è più costoso del caffè da supermercato, è vero, ma se tu lo prendi da una persona che te lo spiega, che lo conserva e lo tratta bene, ha un suo perché». Alberto lo chiama con enfasi dimessa «un piccolo miracolo». Alla Torrefazione viene gente di tutte le età, a reclamare un posto nella nicchia del gusto: «la gente ha voglia di assaggiare cose buone, c’è il pensionato con la minima ma che si porta a casa due etti di caffè buono. Qualcuno che si vuole permettere la qualità esiste, e quando l’ha provata, poi mi viene a dire: “non riesco più a bere gli altri caffè”».

Dietro ogni rivelazione ci sta un rito, una disciplina regolata da una liturgia che trasforma la natura in una esemplificazione dell’uomo. Quando si entra alla Torrefazione, l’odore del caffè ti sbatte in faccia e ti stordisce, ti seduce, ti senti meglio, ti senti anche una persona migliore, agli occhi degli altri. Ma è una vertigine che nasce da un semplice quanto complesso rito, mai immutabile ogni volta che si riproduce. Chiedo ad Alberto di mostrarmelo, conscio che non ne capirò quasi nulla, ma è un po’ come andare a sentire Mozart senza saper nemmeno suonare il flauto delle medie. La fiamma della tostatura come le note sulla partitura. Lo ascolto, senza interromperlo. «I chicchi vengono versati nella torrefazione, entrano nel tamburo dove vengono riscaldati con una fiamma, e una volta tostato viene depositato in un contenitore, si attende che scarichi l’aria accumulata. Il processo è di per sè semplice, ma la vera difficoltà sta nel dare al caffè una forma di presentazione sempre simile, perché il caffè non si tosterà mai uguale: è un prodotto dell’agricoltura, vivo, a seconda dell’anno cambia, e poi dipende dalla temperatura dell’ambiente, l’umidità, la pressione del gas della fiamma che cambia… Il compito del torrefatore – il compito di Alberto – è di agire sui controlli sulla macchina per assicurare un risultato simile tra tutte le torrefazioni, accudendo l’impianto fino a coccolarlo. Il caffè si tosta tra i 15 e 20 minuti, a seconda della qualità e della quantità. Poi si attende che si raffreddi (esce dalla tostatura con una temperatura di 200 gradi) e infine viene inscatolato». Ecco.

Affonda la paletta in un sacco proveniente del Guatemala, l’odore mi fa girare la testa, il colore è il cosidetto «tonaca di frate». «La tostatura deve esaltare le caratteristiche dei singoli caffè, per esempio l’etiope deve risultare selvaggio, irregolare e spinto». Di nuovo, gli aggettivi. Alberto mi stordisce con la terminologia del suo rito pagano, «a 160 gradi si formano le reazioni di Maillard», annuisco, incalza, il caffè tra le sue parole diventa «endotermico ed esotermico». Sono un bambino di fronte a un mago. «Bisogna essere dolci nella salita e nella discesa della temperatura della tostatura». Sono seduto in tribuna a Wimbledon e Federer sta disegnando rovesci a una mano. Dal macchinario spunta anche una chiave da meccanico, «io infatti la chiamo la Tostatrice di Nuvolari, è una soluzione un po’ artigianale che ho adottato per comandare l’apertura del tamburo, optando per una una leva più lunga che mi dia più sensibilità». Alberto affonda le mani dentro i chicchi, e il rumore innocente del caffè sfregato sovrasta i concetti: «A volte si corre il rischio di passare per presentuosi o intransigenti, ma non ci si può allontanare dalla qualità, che non per forza ha un prezzo superiore: il prodotto industriale è più caro del nostro». Una varietà di miscela vale quanto la coerenza, «oggi diventata un problema, per le persone», e la caparbietà «di differenziarsi sempre nella produzione».

Alberto parla, spiega le varie fasi della tostatura, ma vengo inesorabilmente distratto dai dettagli: i rimedi artigianali (e inconfessabili) per giocare con la luce, l’odore e il colore del caffè, le valvole che regolano l’afflusso di gas. Minuzie impercettibili, in una storia che prima di una torrefazione è un trattato su una vita che va in frantumi, tanti quante sono le fragranze del caffè nel mondo (suggerimento: pressoché infinite), e per una volta fermarsi, sbriciolarsi non significa disfatta ma paziente costruzione, passo dopo passo, chicco dopo chicco, di un futuro che ti fa venire voglia di alzarti al mattino. Dove i dettagli non sono perdite di tempo o lussi che non ci si può permettere, ma necessità, snodi essenziali per essere più degni come lavoratori e come persone, dove i confini tra le due categorie si abbattono. Alberto è una persona che lavora, per dirla semplice: è un artigiano del caffè e allo stesso tempo della coerenza, costruita senza venir meno non soltanto alle pratiche per una lavorazione corretta delle materie prime, ma soprattutto con sè stesso. Un bambino rimasto tale, nella visione e nella capacità ricettiva, senza vergognarsi mai di distrarsi inseguendo odori, di rimanere cocciuto evitando compromessi, quelle cose che una volta da adulti non ci fanno dormire alla notte, come un caffè troppo bruciato ingerito pensando ai minuti che restano della pausa pranzo. «Se non troviamo quello che ci piace, e riduciamo il caffè a un male necessario per stare svegli o essere concentrati, è normale accontentarci, affidarci a prodotti scadenti e consumati in fretta. La gente non ha l’etichetta in fronte “intenditore” o “pirla”: tu devi dare lo stesso prodotto a tutti, io ti dimostro che il caffè buono non è inarrivabile, o non per forza deve costare di più. Non serve soltanto il prodotto buono a darmi l’indulgenza plenaria, ma anche la maniera commerciale in cui si presenta».

«Una volta l’artigiano e l’artista erano una persona sola, l’artifex era colui che faceva un capolavoro, che poi facesse una scodella, un cucchiaio, un vaso, qualunque cosa uscisse dalle mani di quella persona aveva un che di sacro e meritava rispetto. Con la rivoluzione industriale l’artista ha perso la sua valenza di utilità, separandolo dall’artigiano, e tutto è diventato prodotto porzionato, ma la cialda èun palliativo, non dà dignità all’espresso, piuttosto sono per la moka, per i metodi tradizionali che mantengano la dignità del caffè. Stiamo ore sui social e al telefono a farci gli affari nostri e degli altri, come mai non abbiamo più tre minuti per farci una moka? Peraltro è anche un simbolo italico di convivialità, riempe d’odore la stanza, è qualcosa di più di una tazzina di caffè». Un rito, appunto, come tostare: «sì, è un sacerdozio, un rituale». E gli adepti crescono: «da un certo punto di vista con la Torrefazione abbiamo creato dei piccoli “mostri”, certi clienti annotano, si ricordano, indagano, “avete cambiato tostatura”, insinuano».

Sovvertire l’ordine delle cose è la missione di Alberto, che arriva a citarmi anche Goldoni, La bottega del Caffè, in cui il servo Trappola spiega l’andazzo comune: «Quando si apre una bottega nuova, si fa il caffè perfetto. Dopo sei mesi al più, acqua calda e brodo lungo». E Ridolfo ride compiaciuto, perché «in quelle botteghe dove vi è qualcheduno che sappia fare il buffone, tutti corrono». L’obiettivo della Torrefazione invece è «fare il contrario di Trappola: mi è capitato di rifare due volte l’espresso più costoso perché era estratto male, oppure alla terza volta mi sono arreso, giustificando con il cliente “vi faccio qualcos’altro perche il caffè non si presenta come deve”. E i macchiati sono banditi. Zucchero: bianco o niente». Intanto i chicchi appena tostati sbuffano: hanno appena perso circa il 20% del proprio peso, il processo della tostatura è violentissimo, aumentano il volume del 20%, facendo fuoriuscire gas. «Ci vorrà una settimana prima di poterlo servire, la presenza di anidride carbonica falserebbe la percezione del sapore. E l’olio che si vede sui chicchi al bar in maniera copiosa, nel caffè prima di essere macinato al bar, è dovuto alla degasazzazione: uscendo l’anidride carbonica si porta fuori la parte aromatica sotto forma di olio, che essendo grasso all’aria irrancidisce: ecco, quando entrate in un bar e vedete la patina di olio sui chicchi, dite che vi siete sbagliati e cercavate un calzolaio».

Vicino alla macchina per tostare ci sono diversi binari su cui poggiano scintillanti trenini elettrici. Il mago è un bambino cresciuto, e Alberto ci tiene a mostrarmi tutte le deviazioni in cui si è perduto: mi mostra la sala di posa dove sviluppa le sue fotografie, tira fuori dallo zaino una macchina fotografica a soffietto, tutto orgoglioso e dallo sguardo vispo, appunto, come un bambino che maneggia un giocattolo. E quando mi dice che il suo caffè arriva fino in una masseria a Bari, e ancora più in là, in Svezia, in un bike cafè di un italiano emigrato che lo serve mentre aggiusta le biciclette dei clienti, capisco che Alberto ha trovato nella Torrefazione il suo modo per definirsi, senza etichette geografiche o anagrafiche. L’odore del caffè mi lascia addosso il segno di una piccola rivelazione: non sono i luoghi a definirci ma la curiosità con cui li cerchiamo e l’orgoglio con cui li proteggiamo. Non sono le nozioni a fare buono un caffè o a farci raccogliere like, ma le impronte che lasciamo sulla tazzina. Per dimenticare il trucco del prestigiatore, e goderci lo spettacolo, basta tornare ad essere quello che facciamo, senza appropriarci di simboli ma anzi, costruendone di nuovi, sia una torrefazione di caffè o una pista per trenini elettrici. Affidando la propria vita non alle mani di una rock band (perché poi la getterà via), ma in quelle di una città dove non si deve lasciare nulla per strada, come mi dice Alberto mentre beviamo l’ultima tazzina: «Dalla mia infanzia, ho preso giusto tre cose: i trenini, la fotografia e il caffè».

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