Facciamo un gioco. Facciamo finta che la storia inizi dal secolo scorso, cancelliamo tutto quanto è esistito prima del Novecento. Poi chiediamoci i motivi per cui Ferrara è nota al di fuori delle Mura. La corte estense, l’arte, l’Addizione Erculea: via tutto. Che cosa rimane? Tra le (poche) risposte, una di queste corrisponde sicuramente a una sigla dal suono strano e indecifrabile, S.P.A.L. (Società Polisportiva Ars et Labor). Celebrare il calcio in questi giorni di sparatorie non è sicuramente una cosa facile o quantomeno popolare, ma va riconosciuto il merito, alla Spal, la squadra dai colori biancoazzurri, di essere stata una delle eccellenze ferraresi nell’era moderna. Provate a chiedere a un bambino di Milano o di Napoli appassionato di calcio e di figurine Panini se conosce il nome Spal, e quello forse inizialmente vi guarderà strano, ma poi finirà per ricordarselo. Il calcio a Ferrara è stato per sedici anni (più di tanti altri capoluoghi di provincia in Italia) nella massima divisione nazionale, la Serie A, e ha raggiunto anche una finale (proprio contro il Napoli) di Coppa Italia. Soprattutto, la Spal di Paolo Mazza (cui è intitolato lo stadio comunale) è stata un “modello” da studiare, per organizzazione e approccio: poche risorse ma ben spese, gestione impregnata di umanità, grande acume nello scoprire giocatori giovani da valorizzare. Qui a Ferrara sessant’anni fa c’era già la ricetta che oggi i giornali sportivi suggeriscono per risolvere la crisi di risultati in cui versa il calcio italiano. Ferrara fu moderna non soltanto nell’urbanistica, nell’arte, nella cultura, e riuscì ad esserlo, forse per una delle ultime volte, grazie a una squadra di calcio. Non tutti se ne ricordano.

Alcuni, però, non l’hanno mai dimenticato, e sono quei tifosi che ieri verso le cinque del pomeriggio erano in Corso Piave davanti all’ingresso dello stadio ad attendere i giocatori per festeggiare assieme la promozione. Gli anni Duemila hanno visto la Spal scendere all’inferno, scomparendo non una ma due volte, e soltanto un anno fa rinacque grazie a un piccolo paesino della provincia, Masi San Giacomo, che sacrificò la sua squadra, la Giacomense, tramutandosi nella Spal di Ferrara. Forse l’ultima possibilità (in tempi di magra e crisi economica) per la nostra città di rimanere nel calcio professionistico. Dopo 34 giornate, la Spal è riuscita a centrare la promozione nella nuova Lega Pro, la storica “Serie C”, che dal prossimo anno subirà una radicale riformulazione e vedrà al via soltanto 60 società, invece delle attuali 90 (circa). Erano sedici anni che Ferrara non festeggiava una promozione nel calcio, ma prima ancora che la permanenza nella serie di competenza, ieri quei tifosi in Corso Piave mi piace pensare fossero lì per contarsi, per riconoscersi come sopravvissuti a un naufragio non soltanto sportivo, ma prima di tutto della Memoria. Che cosa è stata la Spal, che cosa è stata Ferrara.

Foto di Fabio Zecchi

Qualche settimana fa, durante il sabato santo prima di Pasqua, il campionato di Lega Pro era fermo. Disertai la Serie A, la tv satellitare e le pinte di birre del solito pub per virare nel disastrato stadio comunale, dove la Spal giocava sfidava in amichevole una selezione brasiliana. L’ingresso gratuito servì a comprare la mia nostalgia per un calcio dal vivo che ho sempre visto troppo poco, nella mia vita. Sbagliai pure l’entrata, finendo in un angolo morto vicino alla bandierina, chiuso dal chiosco di bibite con le serrande abbassate e insegne ingiallite. Un’anziana signora spuntò dallo “Spal Point”, con un’andatura lenta, lentissima che stonava bonariamente con i neologismi che vorrebbero trascinare nel futuro una squadra un tempo gloriosa. E invece nel futuro ci finiscono soltanto le nomenclature, e in quel sabato di sosta e di amichevoli c’era spazio soltanto per la malinconica decadente dissonanza di un’anziana che mi rimbrottava per essere entrato allo stadio dal punto sbagliato. Me ne scusai, sentendo acuito in me il senso di colpa già incalzante per tutto il calcio che non ho mai visto, da quando mi professo tifoso, quindi da sempre, per tutto il calcio che ho intuito, scimmiottato, travisato, sublimato, bistrattato e mal interpretato, ma visto, calcio mio, davvero poche volte. Salii allora la Tribuna Pari alzandomi il bavero del giubbotto per coprire la vergogna, entrando in un tempio di Calcio giocato, con i muri bianco e azzurri appena ridipinti, perché se i giorni migliori non si possono riportare in vita almeno i colori servano a renderci presentabili, come i nomi inglesi messi in bocca a nonne bonarie. Ci saranno stati duecento spettatori ad assistere all’amichevole, e la prima cosa che notai non fu tanto il lentissimo ritmo di gioco o il numero di volte in cui il numero 2 della squadra ospite impostava l’azione (sproporzionato, per essere un terzino), e nemmeno la faccia corrucciata del portiere di riserva, costretto a sporcarsi la tuta di erba per tuffarsi a prendere palloni lanciati da una distanza breve quanto la sua voglia di essere lì a bordo campo, mentre i suoi compagni giocavano, e lui anche in quel giorno, in un sabato santo, non riuscì a ingraziarsi il dio allenatore. No, la prima immanenza che mi spettinò fu il verde del campo, scintillante sebbene macchiato qua e là dall’incuria di una serie semi-professionistica, un verde fiero, onesto e rigoglioso che scriveva la parola “fine” a tutte le disquisizioni sul perché il calcio serva ad arrivare alla fine del mese. E poi, di quel sabato santo a guardare un’amichevole della Spal, ricordo la madre di famiglia che consigliava di schierare tale Buscaroli «perché in fondo è bravino dai».

Si sarà capito che non sono un tifoso da stadio, eppure amo il calcio come un marinaio ama il mare aperto. Di partite della Spal ne ho viste ben poche, in vita mia, e non starò ora qui a disquisire della promozione, di come è avvenuta, della stagione sul campo della squadra. Il punto è un altro. Il punto è non fermarsi alla prostrazione adorante dei tifosi e nemmeno allo scetticismo cieco e snobistico di chi vede nel calcio e nelle società di calcio soltanto un modo poco intelligente in cui perdere soldi. Il punto è quella madre che consiglia dove piazzare Buscaroli, è la signora anziana addetta al negozio ufficiale della squadra. E’ il verde del prato, anche, sì. Ma è, soprattutto, cercare di afferrare che cosa passasse nella mente e nel cuore e nei fegati di quei tifosi che ieri pomeriggio verso le cinque aspettavano di fronte a un portone chiuso dello stadio. Alcuni indossavano la maglia biancazzurra (divertente riconoscerne la stagione d’uso), altri sventolavano bandieroni, altri erano semplicemente in abiti civili e armati di telefonino. Poi il portone si è aperto, sono usciti giocatori in mutande, bagnati, urlanti, spettinati, e sono partiti i cori per ciascuno di loro, nessuno escluso, e cori per i tifosi stessi, e la voce più o meno rauca faceva un po’ tremare. Era come se la voce di quei tifosi (non tanti, ma nemmeno pochi) riuscisse a far vibrare il filo della Memoria, e riportasse in vita una Ferrara degna e moderna rimasta intrappolata nel secolo scorso. Mi è venuto da sorridere, un sorriso eccitato come se fosse la prima sega, la prima volta al mare in macchina da soli, il primo viaggio all’estero. Le voci rauche e orgogliose e vagamente minacciose, nella loro impetuosità, sembravano riportare in vita un calcio ormai morto.

Sono tornato a casa, sbirciando su Facebook le foto dei festeggiamenti, osservando il corteo che dallo stadio pagano osava infilarsi nella sacra Piazza Comunale durante le gare degli sbandieratori per il Palio di Ferrara. Ecco, se ci fosse stato un turista di fianco a me, gli avrei detto di fotografare le bandiere biancoazzurre dei tifosi, e non quelle delle contrade: immortala loro, la loro malinconica gioia per una società un tempo gloriosa, appena promossa in una serie superiore, e ti porterai a casa un frammento moderno di questa città. Non il Palio, i vestiti antichi degli Estensi, le ricostruzioni storiche. L’anima di Ferrara se ancora esiste, passa anche per la Curva Ovest. Passa per uno stadio costruito in tempi fascisti che ormai rappresenta un modello di cultura sportiva da annientare, e dunque da preservare: perché è all’interno delle Mura, e non fuori, raggiungibile in tangenziale, disperso tra parcheggi e centri commerciali. Perché è uno stadio circondato dalle case (e questo ha anche comportato enormi disagi quando ci furono scontri, perché il calcio è marcio come la vita, anche), perché ci si può andare a piedi, perché è fuso con la città come ogni rappresentazione di essa (specie in campo sportivo) dovrebbe essere. Un’eresia, nei tempi moderni, e come tale quindi più moderna del tempo presente. Passa, l’anima di Ferrara, per i ricordi dei nostri nonni e dei nostri zii, tipo il mio che dopo svariati bypass gli hanno proibito di andare allo stadio (lui che ci andava con il cuscino biancoazzurro, perché i gradoni di cemento armato della Ovest erano troppo duri, a suo dire). Passa per la sua camera, dove alla domenica pomeriggio si rintana allora con una radiolina in mano, che accende un minuto sì e un minuto no, “solo per sentire il risultato”, visto che “alla Spal” andarci non può più. Passa, l’anima di Ferrara, dalla risposta ai complimenti che ho fatto a chi l’ha seguita ogni maledetta domenica, giovani ragazzi giornalisti de loSpallino.com, che hanno dimostrato come il calcio sappia mettere in mostra doti organizzative e di racconto giornalistico insospettabili, e che siano stati giovani ferraresi a farlo: “Il bello viene ora”, mi hanno risposto. E’ la Spal, inevitabilmente sospesa tra un passato sempre presente e un futuro che deve sempre arrivare e che forse mai si potrà toccare. Anche questo è Ferrara.

1 Commento

  1. Marcello R. scrive:

    Sono tornato a casa, sbirciando su Facebook le foto dei festeggiamenti, osservando il corteo che dallo stadio pagano osava infilarsi nella sacra Piazza Comunale durante le gare degli sbandieratori per il Palio di Ferrara. Ecco, se ci fosse stato un turista di fianco a me, gli avrei detto di fotografare le bandiere biancoazzurre dei tifosi, e non quelle delle contrade: immortala loro, la loro malinconica gioia per una società un tempo gloriosa, appena promossa in una serie superiore, e ti porterai a casa un frammento moderno di questa città. Non il Palio, i vestiti antichi degli Estensi, le ricostruzioni storiche. L’anima di Ferrara se ancora esiste, passa anche per la Curva Ovest.

    Complimenti, uno splendido passaggio… 🙂

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