«Sarà stato il diavolo a farmi incontrare quei preti». Giuliana Musso sorride mentre infilza con la forchetta un panciuto tortello ripieno. Racconta del proprio spettacolo, “La fabbrica dei preti”, di come le siano bastate solamente quattro interviste per scrivere il testo, un incontro fortuito e un invito inaspettato: «il primo don non sapeva chi fossi e nemmeno a cosa stessi lavorando, si è avvicinato e ha iniziato a parlarmi della sua storia. Gli altri li ho conosciuti a un convegno di argomento cattolico, l’invito mi era arrivato per caso. L’indagine storica si è basata soprattutto sul libro scritto da don Antonio Bellina, il religioso friulano a cui ho dedicato l’intero lavoro. La ricerca delle testimonianze, delle voci, è stata semplicissima, una fortuna. Di solito ce ne vogliono 400 di interviste, invece in questo caso ne sono bastate quattro». L’attrice, vicentina trapiantata a Udine, sembra stupirsi dei tanti complimenti che riceve, ringrazia e si aggancia alla conversazione del vicino di tavolo: «è fatto con l’uovo questo saccottino?». Il discorso cambia direzione, sterza verso la pasta fillo, proprietà e usi tradizionali, poi ancora si sposta verso la cucina araba, gli involtini croati e il vetro scelto per imbottigliare.

É mezzanotte a Santa Maria Maddalena, in un grazioso agriturismo chiamato La Colombara. I convitati sono una ventina, alcuni si conoscono e magari lavorano assieme da anni, altri invece si sono appena presentati, tra un bicchiere di vino e una patata arrosto. Lo spettacolo di Giuliana, allestito al teatro di Occhiobello dall’associazione Arkadis, si è concluso da poco. Il tempo di smontare il palco e avviarsi per la cena assieme ad attori, tecnici, maschere e staff, amici e spettatori che hanno voluto aggregarsi alla comitiva.

“La fabbrica dei preti” ha chiuso col botto la stagione teatrale 2013/2014 del piccolo teatro veneto. Merito senza dubbio dell’incredibile interprete, trasformista eccezionale, capace di assumere in toto la voce e lo spirito degli anziani preti portati in scena. Merito del testo scritto dalla stessa attrice, capace di spiegare ed emozionare allo stesso tempo, di tratteggiare un ritratto veritiero ed esaustivo delle logiche che per secoli hanno segnato lo sviluppo italiano, logiche basate sull’accettazione supina della gerarchia ecclesiastica, sul controllo sociale silenzioso e pervasivo, sulla negazione della sessualità e sulla ferma esclusione del femminile. Il racconto in prima persona dei personaggi si alterna alla  proiezione di immagini d’epoca e letture di regolamenti, norme che determinano gli orari di sveglia, di preghiera e di studio all’interno dei seminari, che impongono ai bambini di non giocare controvoglia ma nemmeno con troppo entusiasmo, di non infilarsi le mani nelle tasche passeggiando, poiché si troverebbero troppo vicine alle tentazioni del demone meridiano. La narrazione si sviluppa per tre quarti a cavallo di Veneto e Friuli, tra accenti e memorie paesane, indaga con spietata lucidità il sistema valoriale del “nord est produttivo” a cui anche Occhiobello appartiene. Impossibile starsene beati a pensare «questa storia non mi riguarda»: la sala interrompe più volte il monologo per applaudire.

Foto di Giacomo Brini

La cena che segue la rappresentazione è un modo per togliersi qualche curiosità relativa alla realizzazione del lavoro, per approfondire qualche spunto ma soprattutto per stare in compagnia, conoscere facce nuove. Giuliana si dice emozionata perché il giorno seguente porterà lo spettacolo a Parma, e saranno presenti anche due dei preti che le hanno ispirato il testo. Lei e Miriam Paschini, che si occupa dell’organizzazione, si alzano da tavola per prime: devono riposare perché le aspetta un’altra giornata intensa. Il resto della compagnia se la prende comoda, il sabato mattina si può passare a letto senza troppi rimpianti.

Per Marco Sgarbi, direttore artistico del teatro, queste cene lunghe e tardive (difficilmente ci si saluta prima dell’una) costituiscono di un vero e proprio terzo tempo, un modo per coinvolgere ulteriormente il pubblico – affezionatissimo – che segue gli spettacoli.. La convenzione con l’agriturismo è ormai da tre anni parte integrante della programmazione, e il menù degustazione completo a soli venti euro regala sempre delle belle soddisfazioni a tutti.
«Sedersi a tavola assieme è un modo per proseguire l’esperienza emotiva dello spettacolo, positiva o negativa che sia – spiega Marco -, un modo per mettere in contatto il lavoratore con il fruitore. Da diversi decenni c’è la tendenza a idealizzare chi sta sul palco, a credere che gli artisti siano esseri irraggiungibili. Il dialogo con loro serve sicuramente a sviluppare un maggiore senso critico, ad aprirsi al confronto, anche quando il lavoro non è piaciuto. Scambiare idee e opinioni, chiedere spiegazioni, aiuta a capire le dinamiche che hanno portato alla realizzazione della messa in scena. Il teatro è condivisione, la cena porta avanti lo stesso principio».

Della stagione appena conclusa Marco è contento. Il teatro conta 280 posti e la media dei posti occupati quest’anno è 200 a serata, un risultato assolutamente non scontato se si considera la posizione periferica della sala e soprattutto la peculiarità della proposta. L’associazione Arkadis negli anni sta abituando i propri spettatori ad una programmazione densa, mai banale, mai commerciale. Quest’anno – solo per citarne alcuni – sono passati da Occhiobello Paolo Rossi e i Biancofango,  i “Mai morti” di Bebo Storti e “La molly” di Arianna Scommegna. «C’è chi pensa che le scelte fatte siano state troppo forti – conclude Marco -. C’è chi le ha apprezzate di più e chi le ha apprezzate di meno. Mi assumo la responsabilità della visione artistica, credo molto all’idea che sta dietro alle date che abbiamo messo in cartellone. Il bilancio è sicuramente positivo».

La cena si conclude con frittelle di carnevale e caffè. Ci si allontana nella notte umida tra sorrisi stanchi e baci sulle guance, «ci rivediamo alla prossima stagione».

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