“I’ve roamed and rambled and I followed my footsteps
To the sparkling sands of her diamond deserts;
And all around me a voice was sounding:
This land was made for you and me.”
(Woody Guthrie)

Nei giorni scorsi abbiamo avuto la possibilità di fare quattro chiacchiere amichevoli con una delle nostre glorie ferraresi, o meglio tresigallese.

Di passaggio a Ferrara solo per pochi giorni, Diego Marani, giornalista, scrittore e traduttore del Consiglio dei Ministri Europeo, si è gentilmente prestato a questa piccola intervista, sicuramente non esaustiva della sua carriera ma che ci dà la cifra di come venga percepita Ferrara da un occhio completamente esterno.
Un occhio “europeo” su di noi. Nel pittoresco Teatro Anatomico della Biblioteca Ariostea iniziamo il nostro viaggio, tra ricordi, storia, politica, letteratura e multilinguismo.

L’avventura di Marani inizia da Tresigallo non da Ferrara, un elemento che tende a precisare, non per campanilismo ma per farci comprendere che immenso mondo potesse essere la Città per un ragazzo di paese, che cambio culturale e sociale fosse questo passaggio negli anni Settanta.
Ferrara per lui rappresentava un salto, il primo grado di città, la prima esperienza con una realtà più grande che non fosse semplicemente la vita di paese, vorticante intorno al classico bar, che non immaginiamo dissimile da un Bar Sport di Benniana memoria.
La maggior parte dei ricordi sono legati al Liceo Classico Ariosto che ha frequentato (primo della sua famiglia) negli anni Settanta.
Era una scuola di controversie e di posizioni dissonanti, c’erano gli studenti delle “famiglie in ferraresi”, quelli delle famiglie meno per bene e i provinciali come lui, quelli che in teoria aspiravano ad entrare nel gotha dell’establishment ferrarese. Ma la realtà con cui Marani, e tutti i ragazzi come lui dovettero confrontarsi, fu quella delle differenze politiche dell’essere schierati per forza, quasi fosse l’unico modo per “esserci”. Tra gli studenti o eri del Collettivo Unitario o eri degli Studenti Democratici, o rosso o bianco, condannato ad appartenere ad un mondo. Marani ci racconta che anche per questo non ha vissuto davvero Ferrara, non “girava” in città anche perché, per un ragazzo di provincia, implicava dispendio di tempo ed energie, dovevi muoverti in corriera per andare in città, o con il motorino (che, tende a precisare, i suoi non gli hanno mai comprato perché rischioso). C’erano luoghi culturali a Ferrara che non potevi frequentare se non eri del “colore politico” giusto. Questo, insieme alla passione per la fotografia (aveva una camera oscura nella quale passava molto tempo) è anche uno dei temi del suo romanzo “Il Compagno di Scuola” del 2005.

Dopo la maturità a fine anni Settanta, Ferrara inizia ad essere stretta al giovane Diego Marani che, anche influenzato dai molti viaggi in giro per il mondo tra Norvegia e Turchia, in cui si è imbarcato con i suoi genitori, sente l’esigenza di “assaggiare” un tipo di vita più cosmopolita: la Scuola per Interpreti di Trieste. Forte della sua competenza nella lingua francese, studiata fin dalle medie poiché anche il solo apprendere il tedesco era una dichiarazione di essere di destra (e l’inglese ancora non andava “di moda”), e spinto del suo innato sentimento di curiosità è pronto per incontrare quella che forse è, per lui, il secondo grado di città. Trieste è un mondo nuovo, è pieno di vitalità e di contraddizioni, è quasi un mondo a parte, quasi fosse un nuovo paesaggio, un lavoro nuovo come quello di interprete, la conoscenza delle lingue sia parlata che scritta, le incongruenze della minoranza slovena, i dibattiti sul loro non sentirsi italiani ma semplicemente triestini e questa nuova concezione di patria data da una fortissima identità socio-culturale, per loro non esisteva un’Italia unita, essere italiani non poteva essere una definizione precisa.

Foto di Claudio Furin

Trieste è una città mista, le zone della città erano ben divise e delimitate dalla varietà della popolazione, era il posto giusto per l’esistenza di una Scuola per Interpreti, gli stessi insegnanti erano per la maggior parte bi-lingue, il tutto era molto nuovo ma c’era la chiara percezione che potesse e che dovesse funzionare.

Si vede che Marani ha lasciato un pezzetto di cuore a Trieste, si vede da come ne parla e dalla quantità di storie che racconta sulla città e sulle vicende personali di studenti e professori: “…a distanza di anni ancora ci riconosciamo tra noi che eravamo a Trieste, eravamo pochi, tutto era molto personale, eravamo una sorta di famiglia, con il nostro lessico…” chiosa.

Dopo la laurea arriva il terzo grado di città, Bruxelles, dal 1985, infatti, lavora come traduttore presso il Consiglio Europeo dei Ministri, e dal ’94 riprende la sua carriera da scrittore senza ovviamente lasciare il lavoro. La sua palestra di scrittore, anzi usando la sua definizione, “I muscoli nel narrare”, sono state la passione per la fotografia che è un narrare storie e la corrispondenza postale, le lettere che ha sempre amato scrivere e spedire a parenti amici e interessi femminili.

Sono questi gli anni della sua prima pubblicazione: il giallo “Caprice des Dieux” (Minotauro, 1994) e dell’invenzione dell’Europanto, una lingua artificiale costituita da un insieme di tutte le lingue d’Europa, quasi una provocazione contro l’integralismo linguistico di chi predica la purezza delle lingue.  Un gioco intellettuale con cui Marani invita ad imparare le lingue sapendo vedere dietro ognuna di esse l’umanità di chi la parla. La lingua è uno strumento identitario ma è anche una porta aperta verso nuovi mondi che ci aiuta a vedere meglio noi stessi. Infatti il protagonista del celeberrimo “Nuova Grammatica Finlandese” (Bompiani, 2000) è un uomo che ha perso la memoria, non ricorda nemmeno più che lingua parla e quindi nemmeno la sua identità. Una conferma di questa teoria Marani racconta di averla trovata proprio in Finlandia, che non possedendo una storia e un’epica nazionale vera e propria (cristianizzati dagli svedesi nel 1200) se l’è costruita ex-novo, dandosi anche un poema ufficiale per formare una “finlandesità”: il Kalevala . “Tutti credono che sia vera la propria favola. Saperlo ci serve per essere più liberi”, dice.

Prima di salutarci abbiamo tempo per le ultime classiche domande in merito ai progetti per il futuro.
E’ appena uscito per Barbera la sua ultima opera, una raccolta di racconti  dal titolo “Il Cacciatore di Talenti” (2013) e in cantiere ci sono altri due progetti. Il primo è la seconda avventura dedicata al personaggio del romanzo “Il Cane di Dio” (Bompiani, 2012), libro fortemente osteggiato in Italia per la sua forte posizione contro la Chiesa. ” Tant’è -racconta Marani- che il sequel uscirà solo per il mercato inglese, dove invece ha avuto un grande successo di pubblico e critica”. Il secondo progetto vedrà invece la luce in primavera, ed è un romanzo dedicato alle problematiche del lavoro negli anni Settanta e al giorno d’oggi dal titolo “Lavorare Manca”, quasi un memoriale sulle sue esperienze personali nell’ambito della ricerca del lavoro.

“La patria è una costruzione, possiamo costruirne un’altra”
(Diego Marani)

2 Commenti

  1. Sara Brombin scrive:

    Bella intervista per una bella personalità! Consiglio, per chi non l’ha mai letto, “Come ho imparato le lingue” (Bompiani): grande ispirazione per poliglotti e non!

  2. Matteo scrive:

    Intervista molto interessante. Complimenti a Alberto Amorelli,l’intervistatore, e a Diego Marani, scrittore interessante e uomo intelligente. Lettura arricchente!

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