UNA MATTINA DI FEBBRAIO

Quest’anno il 28 febbraio è caduto di giovedì. Un giorno qualsiasi nell’inverno ferrarese, l’ultimo nel mese più corto dell’anno. Sono le otto di mattina, per le strade la solita fredda umidità.

Luigi ha già fatto colazione, ha preparato le ultime cose. Ha chiuso le finestre, spento le luci. Molti escono, o sono già usciti, per andare a lavorare, a scuola o all’università, o per le faccende quotidiane. Anche lui esce di casa, percorre via Tancredi, dove abita, e poi via Gaetano Pesci. La gente lo scruta con curiosità, e con un pizzico di fastidio. Qualcosa non torna: Luigi ha sulle spalle un grosso zaino blu, di quelli che usano i viaggiatori, cellulare e macchina fotografica, un sacco a pelo e due bastoni per camminare. Luigi è un viaggiatore. Anzi, è un pellegrino.

Via Tancredi è una piccola traversa di via Gaetano Pesci, zona via Bologna. È una stradina a fondo chiuso, senza sbocco. Strano paradosso questo: Luigi cerca sempre spazi aperti, lascia che gli orizzonti si spalanchino davanti a sé. Anche in questa grigia mattina qualsiasi cerca nuovi squarci davanti a sé. Se li crea, in un certo senso. È partito, si è messo in testa che deve andare a Gerusalemme. A piedi.

I SOGNI DI LUIGI

Luigi Visentin ha 63 anni, è nato proprio a metà del Novecento, nel 1950. È venuto al mondo una domenica d’ottobre vicino all’Adige, nel padovano. Fino al 2005 ha lavorato in banca poi, una volta in pensione, ha deciso di riaffrontare una delle sue paure giovanili: quella del viaggio. Ha scelto di dedicare la sua nuova vita a una ricerca continua in giro per il mondo. Da piccolo, alle Elementari, un Maestro gli ha insegnato una delle cose più importanti per la formazione di una persona: la curiosità. Il desiderio, insomma, di spostare di continuo il limite del conosciuto, il confine del non-ancora scoperto.

Ci accoglie a casa sua per raccontarci questo suo ultimo folle viaggio in Terra Santa. Sullo schermo del PC appoggiato sul tavolo del salotto appare una mappa dell’Italia. Quando non si muove col corpo, rimedia con la mente, preparando nuove esperienze. Anche da piccolo viaggiava parecchio, ma solo con la fantasia. Col cuore varcava confini, attraversava steppe e deserti, incontrava gente d’ogni credo, visi strani, straordinari nella loro esoticità. I suoi occhi divoravano interi atlanti, la testa china lavorava senza sosta nel prodigioso campo dell’immaginazione.

Foto di Giulia Paratelli

UN ULTIMO SALUTO

Ma torniamo a quei giorni di febbraio. “La sera prima di partire – mi racconta – si è già in viaggio, quindi non avevo molti pensieri, ma già da una settimana prima sono iniziate a venirmi paure, ansie, debolezze. Mi chiedevo: ce la farò? E se mi ammalo? Se mi succede qualcosa?”

Quando si è all’alba di un’esperienza nuova, quando si va “incontro all’ignoto si è sempre titubanti appunto perché non si sa a cosa si va incontro. All’inizio c’è lo slancio del cuore, ma poi la mente, la parte razionale inizia a vedere le sfaccettature, ad analizzare i disagi”. Abbandoniamo la quotidianità, il nostro ambiente, le nostre sicurezze, e tutto ciò c’incute un atavico timore.

Dopo via Tancredi e via Gaetano Pesci, Luigi imbocca via Bologna, la lunga strada che porta al capoluogo emiliano. La sua prima tappa è Altedo, dove arriverà sette ore dopo. Prima, però, un atto dovuto. Un saluto che è quasi una richiesta di benedizione. Si ferma a Gallo, città dove sono sepolti i suoi genitori. “Sono passato a salutarli”, mi dice, mentre sorride dolcemente. Da lì prosegue, sempre da solo, verso Firenze, e poi verso Roma. Nella Città Eterna vi arriva il 18 marzo, giorno del primo Angelus di Papa Francesco, al quale partecipa. Qui s’incontra con Giovanni Bruttomesso, vicentino, conosciuto su qualche sito di pellegrini, suo compagno in questo lungo e difficile cammino.

UNA GRANDE COMUNITÀ

Cammino che li vede, sempre insieme, attraversare il centro-sud Italia, passando per il Lazio, l’Umbria, la Campania, la Basilicata, la Puglia. Qui, a Bari, s’imbarcano per l’Albania. E poi la Macedonia, la Grecia, la Turchia, il Libano, la Giordania e infine la Terra Promessa, la loro terra tanto agognata, Israele. Quattro mesi di viaggio passando dalle nevi appenniniche al terribile caldo mediorientale. Il tutto attraversando grandi città, tra cui Salonicco, Istanbul, Beirut, ma soprattutto una miriade di paesi e di villaggi sconosciuti: Radicofani, Veroli, Alife, Peqin, Bitola, Vevj, Stavros, Kimeria, Mudurnu, Ahiboz, Pozanti, Baalbeck, Ibillin, solo per citarne alcuni. Tra internet point e allevamenti di bufali, Luigi e il suo compagno nel loro lungo percorso si fermano a dormire in numerosi ostelli gestiti da religiosi o in santuari, monasteri. In alternativa, in alberghi o addirittura in stazioni di servizio. Una volta anche in una moschea, ad Ahiboz, in Turchia.

Il loro non è per nulla un viaggio solitario, un cammino di due pensionati italiani in fuga da qualcosa (o da qualcuno). È, al contrario, un continuo entrare in piccole comunità (famiglie, monasteri), una ricerca del più puro contatto umano, della condivisione più disinteressata possibile. Il loro pellegrinaggio è fatto di accoglienza e di solidarietà. Come se un’unica grande comunità si sviluppasse lungo i 4,000 km del loro percorso. Un’unica famiglia divisa da confini artificiali, da guerre e da odi che non hanno scelto. Anche in questo senso il suo è un percorso spirituale.

IL SACRO E IL COMPAGNO

L’ultima tappa del loro pellegrinaggio è, ai primi di luglio, Betlemme, luogo della natività di Gesù, come Gerusalemme luogo sacro per eccellenza della cristianità. Prima di lasciarci gli chiedo di raccontarmi l’episodio che più l’ha colpito durante il viaggio. Si ferma a riflettere solo pochi secondi e poi inizia a raccontarmi di quando, in un modesto villaggio vicino a Taskesti, in Turchia, vede una bambina giocare nel cortile della sua povera casa. Appena passano davanti, corre subito a chiamare la madre che è in casa, la quale esce sull’uscio facendoli segno di aspettare. Rientra, e dopo pochi secondi è l’altra figlia a uscire per donare a Luigi e a Giovanni un grosso pane, un pane sacro. “Questa signora ci ha visto, non ci siamo neanche capiti a voce ma subito, di sua spontanea volontà, ci ha dato questo pane. È stato un momento molto emozionante, non sapevo cosa dire.”

Gesti come questo spiegano il senso di un percorso così difficile, il perché una persona scelga di abbandonare le sicurezze della propria quotidianità per abbandonarsi, per immergersi nel mistero. Per andare a cercare, a incontrare direttamente persone d’altri paesi, occhi che seguono il cammino, mani che indicano la via e che porgono, in un gesto di comunione, un pane che non è solo simbolo di ristoro ma di una fraternità più grande, e per questo “sacro”. In questo gesto c’è molto di più, c’è la rappresentazione di cosa significa essere “compagni”. Per questo motivo, non per altro, Luigi e Giovanni non sono mai stati soli nel loro cammino.

4 Commenti

  1. VALERIA GENESINI scrive:

    BELLISSIMO ARTICOLO, DA PORTARE NELLE SCUOLE, INSEGNARE AI RAGAZZI DOVE LA CURIOSITA’, LA VOGLIA DI VIVERE, LA PASSIONE POSSANO PORTARE A MIRACOLI VERI E PROPRI ANCHE IN TARDA ETA’…..PER NON SPRECARE LA PROPRIA VITA….BRAVISSIMO|

  2. Corinna Agostoni scrive:

    Complimenti per l’articolo, davvero interessante. L’abbiamo pubblicato qui https://www.facebook.com/itraveljerusalem.it , nell’account ufficiale della municipalità di Gerusalemme.

Rispondi a VALERIA GENESINI Cancella il commento

Prima di lasciare il tuo commento, ricordati di respirare. Non saranno ospitati negli spazi di discussione termini che non seguano le norme di rispetto e buona educazione. Post con contenuti violenti, scurrili o aggressivi non verranno pubblicati: in fondo, basta un pizzico di buon senso. Grazie.