Proprio mentre scorrono le immagini del Ghana scattate da tale Denis Dailleux, in un cortile di Palazzo Roverella infreddolito ma popolato da silenti occhi, mi viene in mente che i miei genitori, nati e cresciuti a Ferrara, e come loro i nonni prima e via dicendo, il cortile del Palazzo Roverella non l’hanno mai visto, in oltre sessant’anni di vita. Mi viene in mente, mentre vengono proiettate foto dalla Cina di un fotografo cinese di cui ho pigramente omesso di segnarmi il nome, quella frase di Chiara Nielsen, direttrice del Festival di Internazionale, pronunciata proprio davanti ai microfoni di Listone, che questo festival non si potrebbe fare in nessun altro luogo che qui, a Ferrara. Questo fotografo cinese, di cui forse il nome, in un continuo e incessante bombardamento di impulsi nozionistici di cui sono infarciti giorni come questi, è impossibile ricordare, ha pensato di percorrere il suo paese, la sterminata Cina, da nord a sud, e mentre lo percorreva scopriva cose del suo paese un po’ meno immediate dell’immagine della Cina impressa nei nostri subconsci. Si è accorto, tagliando a metà quell’enorme territorio, che non è poi così vero che in Cina si sta stretti e che anzi, c’è una sterminata e moltiplicata solitudine, ci sono tante piccole città isolate l’una dalle altre, e anche in Cina, sì, quella Cina che noi crediamo sovrappopolata, in Cina esistono uomini soli. Ci sono queste immagini commentate da Christian Caujolle, un photoeditor francese che pigia sul suo mac il tasto ‘Avanti’, in un silenzio quasi surreale in un venerdì sera che mi sembra allo stesso tempo irrimediabilmente e per nulla ferrarese.

Poco distante, Corso Ercole I d’Este è immersa in un blackout di luci e suoni lacerati soltanto da potenti proiettori. Immagini delineate che si stagliano su alcuni fortunati palazzi. C’è la maschera di V per Vendetta, riprodotta per metà su una chioma di un albero vicino alla ex sede della Banca d’Italia. Ci sono uomini che si baciano, persone in rivolta, laddove di giorno, di solito, non c’è praticamente nulla (sarà la via più bella di Ferrara, ma ammettiamolo, è anche la via più vuota della città). Tornano, di nuovo, le parole di Chiara Nielsen, sull’ineludibile destinazione di un festival come quello di Internazionale, e di nuovo ripenso ai miei genitori, in questo momento a casa, probabilmente di fronte alla tv, o anzi, vista l’ora, a dormire. “Non potrebbe che essere a Ferrara”. Una prospettiva limitata e limitante, figlia di quell’estraneità ai luoghi che li trasforma in quello che vorremmo che fossero, e non in quello che sono, una prospettiva distante pericolosamente, e affettuosamente vicina a quella di un “turista”, che vede tutto quello che i cittadini non sanno più vedere, ma non riesce a scorgere l’essenza, la quotidianeità, per buttarla sul banale. Internazionale a Ferrara è un festival, ma è anche un clamoroso (e a fin di bene) falso storico. Sono cortili di palazzi antichi gelosamente custoditi che si aprono al pubblico solo in rarissime occasioni. Sono giornalisti stranieri che processano l’Uomo in piazza, esattamente nello stesso punto dove a Natale sorge una giostra e distribuiscono vin brulè. Sono celle frigorifere colme di mele dotate di ruote che girano per Corso Martiri della Libertà bloccata da code infinite. Tutto questo non è Ferrara, e i miei genitori bene lo sanno. Eppure anche questo è Ferrara, e tutti i meravigliosi occhi “stranieri” di questi giorni lo possono confermare. Ferrara che non è Ferrara, ma è Ferrara, è l’alchimia che stordisce di questo Festival, che si assapora, ma in modo più rumoroso e strisciante, durante i Buskers, e si annusa soltanto, come un profumo di una bella ragazza che ci passa vicino di sera, per strada, in occasione dei concerti di Ferrara Sotto le Stelle. Ma solo durante Internazionale, l’incantesimo è svelato compiutamente.

Foto di Fabio Zecchi

L’incantesimo corre su un filo del quieto vivere, i ferraresi che agognano la dimensione internazionale attendono pazienti questi rari giorni dell’anno in cui è possibile camminare in centro senza sentirsi fuori posto. E allo stesso tempo, in questa tacita tolleranza tra compaesani, ci sono i ferraresi che invece nulla sanno, di Internazionale e dei temi trattati, che continuano a perpetuare i propri riti quotidiani senza invadere il campo “avversario”. Poi appunto accadono momenti dove i due emisferi si scontrano, le due Ferrara stridono emanando scintille che defineremo bonariamente ironiche. C’erano queste foto in bianco e nero scattate da una sonda su Marte, venerdì sera, nel cortile di Palazzo Roverella, senza nessun commento, soltanto la silenziosa espressività delle immagini in bianco e nero, con un centinaio di spettatori, tutti molto riconoscibili tra loro nell’uniforme da Festival, in breve: un taccuino di pelle foderato che assurge allo stesso ruolo simbolico di uno smartphone collegato su Twitter, molta stoffa, molta femminilità e molti occhiali e barbe. C’era questo silenzio concentrato, rappreso, e poi arriva ad un tratto nel cortile una Vespa, con a bordo un ferrarese (l’accento è inequivocabile), che spegne il motoveicolo, si toglie il casco e si guarda intorno stupito. E rompe l’incantesimo con un colpo di bacchetta, esclamando: “Che silenzio! Dai, mojito per tutti su Marte!”. Ecco, nell’ampiezza della prospettiva delle foto della sonda Nasa, 6 km, come premuroso spiegava poco prima Christian Caujolle, era misurabile lo scarto tra le due metà di questa città, incerta come l’esito ironico di quella ferale battuta. Ma che cos’era Ferrara, in quel momento? Il silenzio o la dissacrazione? Lì ho capito come forse si poteva sentire la sonda Nasa, a fotografare un pianeta lontano, e provare a farci stare dentro un raggio di 6km interi continenti.

E anche sabato, dove la pioggia sembrava cadere ma che poi alla fine mai è caduta, tutte quelle persone ovunque mi facevano sentire sempre più una sonda verso i limiti del Sistema Solare. L’incontro con il vicedirettore di Internazionale, per spiegare come si scrive un curriculum, la platea piena di giovani con mille accenti diversi, e poi la domanda di un 51enne dirigente rimasto senza lavoro. La distanza. Le metà. La coda davanti al Comunale, per non so nemmeno quale incontro (tanta e vasta era l’offerta, da non riuscire a distinguerli), e la richiesta sferzante risuonante in un bar nei pressi della fila, “mi fai quattro bombardini grazie!”. E capto questa ambivalenza anche domenica, quando poi la pioggia si è decisa, a bagnarci, per provare a incollare i pezzi di questa città divisa che da domani, da un lunedì che dopo la sbornia sembra sempre il Primo Lunedì del Mondo, tornerà a sentire sempre gli stessi accenti, le stesse ironie, gli stessi orizzonti. Nel Teatro Verdi che sembrava chiuso per sempre (nemmeno quello hanno mai visto i miei genitori, mentre invece magari persone che sono venute per la prima volta a Ferrara proprio in questi giorni hanno avuto la fortuna di scoprirlo subito) e riaperto come un lampo, dove giovedì pomeriggio si dispiegava lungo i suoi fianchi un nastro giallo, e domenica sera invece era zuppo di pioggia, e i vassoi carichi di pizzette disposti per la festa di chiusura annunciavano la fine del sogno del teatro riconquistato: “A sarèn!”. Le pizzette e le lucide dissertazioni sulle smart city, Ferrara che è Ferrara e non è Ferrara. Una dicotomia festivaliera irrisolvibile, e non trovo pace e provo a vagare nelle ultime ore della domenica, quando ormai tutto è compiuto, i binari della stazione sono colmi di giornalisti in fuga, tento di assaporare un’ultima molecola di Festival passando per la Sala Stampa quasi in disarmo, c’è un volto a me noto che mi racconta della fatica e della passione con cui ha vissuto la manifestazione, chiusa quattro giorni nella stanza in via Adelardi, senza assistere a un solo evento, che ha visto passare (quasi) tutti gli ospiti, carpendo dettagli invisibili dalla platea, che ha conosciuto i giornalisti, “Iacona è sempre passato di qui”, la disponibilità di alcuni e l’arroganza di altri, che insomma ha visto più di me, sebbene rinchiusa in una sala stampa. “Ma c’era gente?”, chiede, e io annuisco, “c’era il delirio per la pioggia?”, chiedo e lei annuisce.

Poi esco, ormai sono le sette di sera, finisco per passare davanti alla vetrina del Mercatino del Libro Usato, è ancora aperto, dentro non c’è nessuno ma come tutte le domeniche questo luogo a suo modo simbolo della città è, silenziosamente, aperto. Entro, e mi faccio raccontare come hanno vissuto i giorni del festival, per cercare vanamente di togliermi di dosso questa sorda ma insistente consapevolezza che mi fa un po’ odiare e un po’ amare questa città che sa essere in mille modi diversi. La soddisfazione per le strada di Ferrara che si riempiono, e dunque anche l’afflusso dei clienti. I giornalisti che hanno scoperto il Mercatino passeggiando per la città, e ora ogni anno tornano a chiedere libri che solo qui riescono a trovare. La perplessità per un’organizzazione che vorrebbero più presente, nel dialogo con i commercianti. Tutte le metà di Ferrara. L’incontestabile certezza che, la Ferrara durante Internazionale, diventa comunque più Ferrara, quale essa sia, e nelle sue vene, scorre comunque più sangue. Scopro infine che sono gli ultimi minuti di apertura del Mercatino del Libro. “Sì, oggi è l’ultimo giorno, venderemo solo online, prima di trovare un’altra sede”. Finisce un Festival, e una libreria di quartiere chiude, anche se riaprirà, ma stasera chiude, comunque, ma sembra con il sorriso, senza fare proclami o senza celebrarsi. Non lo so se tutto questo abbia un collegamento, se tra Internazionale che finisce e una libreria che chiude ci sia un filo, ma del resto non so nemmeno se la Ferrara che abbiamo portato in scena, nei giorni del Festival, sia quella più veritiera. Forse per questo, viene poi voglia di tornare, tutti gli anni, ma solo per tre giorni, ma tutti gli anni.

3 Commenti

  1. Riccardo Petracchini scrive:

    grazie Fabio, grazie.

  2. e. scrive:

    (non che ne sia stupita eh, ma) la cosa più lucida letta sul festival in questi giorni, e in generale.
    Sempre le parole giuste.

    Ah, poi: entrata all’Apollo dopo quasi un’ora di fila sotto una quasi pioggia, mi si siede accanto una signora “in uniforme da festival” che sorridendo mi chiede: Scusa, cosa stiamo per vedere?
    E niente, sul momento mi era sembrato emblematico, di Tutto.

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