Nonostante il cielo si faccia minaccioso di pioggia, e le nuvole diventino pesanti, il lucido parquet installato di fronte al circolo Bolognesi viene lentamente invaso dalle coppie di tangueros.  Inizia a soffiare un vento fresco, il suo fruscio si confonde con lo svolazzare delle lunghe gonne danzanti, con lo struscio dei corpi, con il lieve rumore delle scarpe sul legno. Un mormorio di sottofondo, proveniente dai tavoli della milonga, sporca, senza spezzarlo, il ritmo dolente della musica. Se si arriva da via Garibaldi, e si svolta in via Colomba, l’abside disegnata da Biagio Rossetti – parte dell’ex Chiesa di San Nicolò – sembra indicare la direzione da seguire, guidando fino alla pista, come il braccio del tanghero “marca” la sua compagna, la seguidora.

Le danze sono state aperte sabato scorso, nel tardo pomeriggio, e continueranno per tutta la durata del Festival. L’atmosfera di questa piccola piazza, già di per sé intrigante, si è fin da subito caricata della calda cupezza del tango. Il circolo Arci e le diverse associazioni di ballo cittadine l’hanno trasformata in una “Plaza de Tango”, in un luogo avulso dal frastuono dei Buskers e per questo adatto ad un evento così particolare. In poco tempo, prima la penombra, poi l’oscurità avvolgono gli avventori. Chi non è già perso nel turbinio del ballo, si siede sulle sedie o intorno ai tavoli disposti ai lati della pista. Alcuni bevono una birra, altri un calice di vino, altri ancora cenano, gustando un tagliere di salumi e di formaggi, un piatto di cappellacci o di tagliatelle, che escono fumanti dalla cucina del circolo. La luce debole dei lampioni, insieme ad alcune panchine circondate da piccoli alberi, contribuiscono ad accentuare la sensazione di malinconico raccoglimento.

Foto di Giulia Paratelli

“…Gira su te che fai girare me/Con passo lento e malizioso/Magari un po’ gitano e demodé…”. Questo verso dei Matia Bazar può aiutare a entrare nelle mille sfaccettature, nelle emozioni contraddittorie che trasmette questa musica, nata a fine Ottocento a cavallo tra Argentina e Uruguay, nella regione del Río de la Plata, tra gente umile. Le struggenti voci dei cantanti trasmettono visceralmente questo pathos, questo conflitto latente. Lo stesso Jorge Valendel – cantante argentino di fama mondiale, che vive da circa dieci anni a Ferrara – ha deliziato sabato sera il pubblico accorso interpretando due brani, mostrando così pienamente questo dolore, questa brama. Giacca blu scura, pantaloni bianchi, il viso pieno di rughe, segnato dallo sforzo del ricordo, dall’assenza e dalla fatica dell’interpretazione.

E così il tango assomiglia a una sfida sottile ma stancante, ad un dialogo di corpi, ad un azzardo malcelato. Anche sulla milonga ferrarese i passi sono cadenzati, sensuali, a tratti tentennanti, i ballerini sono attori di questo gioco malizioso. I corpi si muovono tristi ma appassionati, s’incontrano e si allontanano, si cercano e si osservano, quasi si respingono. Giocano e soffrono, insomma. Si sfiorano caldi, ma sembrano dimenticarsi a volte. Alcune donne, infatti, tengono gli occhi chiusi: aggrappate al loro compagno che le guida e le accarezza, si attaccano a quell’attimo come all’ultimo. Alcune di loro indossano lunghi abiti, che risaltano le forme senza involgarirle. Anche alcuni ballerini vestono eleganti, con camicia bianca o scura, pantaloni lunghi, scarpe da ballo. Non è, però, difficile trovare chi semplicemente indossa short e maglietta, con scarpe da tennis. Su una parete a lato della pista, sopra il dj/musicalizador vengono proiettate immagini di altre milonghe, di altre serate, che riflettono, come in uno specchio, il vortice lento della pista.

L’elegante “Camminata”, passo base del tango, coinvolge chi osserva in questo turbinio di movimenti. “Io tocco”, significa tango in latino. Ed è bello scovare, in questo moto quasi erotico, le dita di una seguidora, appoggiate sulla schiena della sua “guida”, a tratti muoversi, aprirsi leggermente, mimando una lieve carezza. È, però, l’uomo – col linguaggio del suo corpo – a chiedere alla compagna di spostarsi, di muoversi, lasciandola però libera di improvvisare. Se, quindi, come disse Enrique Santos Discépolo, noto paroliere, «il tango è un pensiero triste che si balla», è un gioco di sguardi e di corpi che mimano il corteggiamento, la conquista e la perdita, allora si può comprendere la sua magia. Le sensazioni sembrano trafiggere i corpi. Tra un dècolletè e una camicia appena aperta, tra uno spacco bianco e uno sguardo oscuro, la carnalità nel silenzio può essere sprigionata.

Bernardo Bertolucci, nel ’70, portò all’estremo l’anima di questa danza in “Ultimo tango a Parigi”, arrivando, nel finale del film, alla sua dissacrazione, nella famosa scena della sala da ballo: un passaggio decisivo verso la perdizione assoluta, verso la morte. Così, una dopo l’altra, le prime serate si concludono, la pioggia annunciata battezza gli ultimi, eroici, protagonisti di questa danza. Le coppie lentamente si allontanano, di nuovo aggirano l’enorme abside, qualcuno invece si rifugia nel circolo o corre, senza ombrello, sotto la pioggia. La notte con i suoi fulmini incombe, sul parquet bagnato sembrano ancora danzare quei corpi, l’atmosfera rimane sospesa fino alla sera successiva. Ormai è tardi, ma si è ancora in tempo per un ultimo bicchiere, mentre qualcuno, come Paolo Conte, penserà “io sono qui, sono venuto a suonare, sono venuto a danzare, e di nascosto ad amare.”

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