«Delle mie composizioni ce ne saranno 40 o 50 suonabili, nel senso che le posso suonare perché me le ricordo lucidamente. Purtroppo il database mentale umano non è infinito. Di composizioni improvvisate ne avrò registrate circa 200, in modo amatoriale, ma la maggior parte di queste si è perduta nei meandri del mio hard disk. Dalle improvvisazioni estraggo dei frammenti che elaboro e rifinisco, per comporli in un unico cristallo, opaco o splendente, questo lo decide l’ascoltatore». Jacques Lazzari parla della propria passione per il pianoforte con tranquilla consapevolezza, senza l’egocentrica esaltazione cara a molti artisti, senza la timidezza che ci si potrebbe aspettare da un ragazzino della sua età. Diciassette anni, magrolino come la maggior parte dei suoi coetanei, occhialetti tondeggianti, incarnato pallido, sguardo mobile ed elettrico. Jacques mentre racconta trasmette corrente, ma non si scompone quasi mai: l’energia è forte ma indirizzata, incanalata, come acqua che sfoga correndo nel letto del fiume.

Ha cominciato a suonare all’età di cinque anni, con una batteria giocattolo che finì velocemente distrutta. «E poi cosa feci? Continuai ad apprezzare il suono, la musica. I miei genitori mi portarono da un’insegnante di violino specializzata nella didattica per bambini. Non mi appassionai al suo strumento ma lei confermò l’indole ritmica che già avevo dimostrato. Tengo il tempo con facilità. E così cominciai a prendere lezioni di piano, cambiando negli anni numerosi maestri. La varietà dell’insegnamento – dettata da questioni di carattere pratico, ovvero il mutare degli impegni, delle scuole che frequentavo – è stata molto utile: mi ha permesso di spaziare, di essere più versatile». Dall’apprendimento delle tecniche altrui alla composizione in proprio il passo è stato breve, una conseguenza inevitabile: «a otto, nove anni componevo già ma per scherzo, erano cosucce, musichette banali e infantili, mi limitavo a stereotipare. Poi per diversi anni smisi di improvvisare. La voglia di comporre tornò nel 2011. Capii che potevo trarre piacere da quello che le mie mani erano capaci di fare, la ricerca si fece più seria, cominciarono anche diverse collaborazioni. Ma è solo da pochi mesi che ho iniziato a trascrivere le note dei miei brani, per non dimenticarle».

Foto di Valerio Spisani

Jacques nella sera di sabato 20 luglio ha suonato per la prima volta in pubblico una selezione di proprie composizioni: tredici brani raccolti sotto l’ombrello di un titolo evocativo, “Il pianoforte dietro la luna”. «Una sera guardando la luna mi chiesi come sarebbe suonare da lassù – spiega -. Nello spazio il suono non si diffonde, ma se con una capsula potessi superare l’ostacolo? Come sarebbe suonare dietro l’astro lunare, nella pace e nella completa quiete, senza nemmeno vedere la terra, senza pensare al mondo in cui vivo tutti i giorni?». Il concerto – organizzato dal circolo Frescobaldi – si è svolto nel loggiato di Palazzina Marfisa, e per gli ascoltatori è stato facile perdersi e fantasticare nel buio del parco addormentato, invitati e guidati in questo viaggio dall’emozione pulita della musica. Un’ora e mezza di abbandono, immersione nella percezione. Il piano di Jacques ha lavorato sodo per sciogliere le resistenze degli ascoltatori più rigidi, come un’onda si è saputo portar via tutto e tutti, trascinando con sé un frullio di pensieri e sensazioni. Ad accompagnarlo sul palco il violinista Jacopo Ferri, per il fuori programma intitolato “L’attesa”.

Intervistato prima dell’esibizione, il giovanissimo compositore racconta a Listone Magazine della sua formazione: «Ho sempre studiato la classica e tuttora la studio, è un allenamento importante, ma non è su questo filone che intendo sviluppare le mie composizioni. Mi piacciono generi diversi, la mia ricerca musicale è lenta: si costruisce giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. La musica che mi viene istintivamente da comporre non è diretta evoluzione della classica, ci sono tanti rimandi al folklore. Mi ha sempre interessato la musica che proviene dalle diverse regioni del mondo. La classica per imparare a suonare è fondamentale: contiene già tutto per quanto riguarda l’allenamento della mano, ci sono tecniche che si possono apprendere solo applicandosi a determinati brani. Però mi piacerebbe che in Italia i conservatori iniziassero a staccarsi dallo schema della classica a tutti i costi. Lo stesso nome assegnato a questo tipo di scuola fa capire che difficilmente ci si sposterà da Bach per i prossimi mille anni, e va bene. Per fortuna esiste chi conserva. Ma perché non introdurre a lezione altri pezzi? Qualcosa che serva da spunto ai musicisti per apprendere nuove sonorità. Perché non spaziare? I tentativi ogni tanto ci sono ma spesso si rivelano sommari, riduttivi. Il jazz ad esempio viene schiacciato nello stereotipo degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Da profano, perché non sono un jazzista, credo che il jazz evolva come evolve l’uomo, può comprendere cose molto diverse. In fondo è una parola. È diverso dal walzer o dal tango, generi che fanno riferimento a un tempo scandito ben preciso».

Sull’attuale panorama musicale estense si esprime con qualche cautela: «Ferrara da questo punto di vista è uno zombie, anzi: più che uno zombie è una bella addormentata. Il potenziale c’è ed è notevole, ma purtroppo nei confronti dei giovani e della musica spesso la città dimostra un atteggiamento chiuso. Sono contento che qui ci siano tanti gruppi e musicisti che continuano a lottare per portare avanti la loro passione, per suonare in un ambiente non di rado reticente ad aprire i propri spazi. Ho fiducia che nel tempo la situazione possa migliorare». Cosa cambierebbe Jacques, se potesse? «Io non cambierei nulla, da solo non posso cambiare nulla, il bello è osservare e partecipare al corso degli eventi».

La risposta da parte di un ragazzo che ancora deve raggiungere la maggiore età è spiazzante, ed è impossibile – di fronte a un pensiero tanto lucido e appassionato – non ricordare la recente polemica relativa ai giovani ferraresi, giudicati rei di “bruciare la loro vita in enormi sbronze di alcol e droga”. «Alcol e droga ci sono – commenta Jacques -, ma almeno tra le persone che conosco non ci sono né alcolisti né drogati. Quando la sera passo vicino alla piazza vedo persone che ridono e si divertono, e questo mi basta per sorridere e andare avanti».

Lascia un commento

Prima di lasciare il tuo commento, ricordati di respirare. Non saranno ospitati negli spazi di discussione termini che non seguano le norme di rispetto e buona educazione. Post con contenuti violenti, scurrili o aggressivi non verranno pubblicati: in fondo, basta un pizzico di buon senso. Grazie.