“Io cerco di andare dietro al perpetuo divenire della natura, cerco di coglierlo in un attimo.”

L’atmosfera creata dalle parole e dalle opere di Daniela Carletti ha origine da questa intuizione tipica dell’artista. Intuizione che, al solo nominarla, rischia di perdere valore, senso, di svanire, appunto perché non appartiene all’ambito razionale, ma a quello spirituale. Non più di venti giorni fa Daniela ha terminato, dopo alcuni mesi di lavoro, la sua ultima opera Primavera, una tela 200×200 cm. che domina una delle pareti del suo laboratorio, situato in via Carlo Mayr, 143.

La sua storia è quella di un’artista che consacra da più di trent’anni anima e corpo alla sua passione, la pittura. È alla fine degli anni ’70 che l’interesse per l’arte inizia a prendere forma. Dal ’79 all’’89, infatti, frequenta la scuola d’Arte “Accademia San Nicolò” di Ferrara, nell’omonima piazza. Inizia a sperimentare l’uso della creta, della resina, della fibra di vetro, dei fili di ferro e del gesso per le sue sculture. Nel 1988 ha la prima occasione per esporle, al Centro Artistico Ferrarese di via Garibaldi.

Per molti anni, però, quello della pittura non è il suo unico impiego, poiché lavora come impiegata in banca. Solo dal 2006 inizia a dedicarsi a tempo pieno alla produzione artistica, “incomincio – mi dice – a soddisfare questo mio bisogno di esprimere, di fare”. La sua arte, il suo modo di creare, riesce a fondere da una parte proprio quest’aspetto pratico, la manualità, la stessa fisicità dei materiali usati, delle tele, delle canne spontanee e delle erbe che lei stessa raccoglie per le sue opere. E, dall’altra, un senso di dolce inconsistenza, di un’eterea naturalezza emanata dalle tele. “C’è il sudore, c’è un rapporto diretto, quasi sensuale con quello che faccio. Il concetto di terra-impronta-matrice – nel quale è fondamentale l’uso di erbe e canne – non l’ho inventato io, ma ho cercato comunque di reinventarlo per rappresentare alcuni elementi naturali.” Il risultato è una via di mezzo tra la scultura e la pittura, con effetti, su chi osserva, non solo visivi ma anche tattili.

Proprio la natura è il cuore di ogni sua opera. La stessa radice etimologica del termine “natura” riguarda la nascita, la generazione. La sua sacralità, la sua eternità, il suo essere – in una visione panteistica – creatrice di ogni cosa, mostra il nesso profondo, spirituale tra questa e la creazione artistica, soprattutto se declinata al femminile, come nel caso di Daniela.

Ammirando le sue opere si coglie, dunque, un bisogno, una tendenza intima a riscoprire la sacralità della natura, la sua magia, il suo mistero. E la ricerca di un contatto diretto, immediato con essa. “Ogni parte di Primavera, la mia ultima opera, è diversa dall’altra, in essa nulla mai si ripete. Anche la natura è in continuo divenire, vi è un continuo cambiamento, e così anche nelle mie opere non ci sono mai ripetizioni, cerco di andare dietro al perpetuo divenire della natura, cerco di coglierlo in un attimo.” Pánta rhêi hōs potamós, tutto scorre come un fiume. L’artista, però, può fermare questo divenire, e la tela, essendo “immagine ferma, fissa, permette di riflettere, di meditare.”

Foto di Giulia Paratelli

Il microcosmo naturale di Daniela è abitato da farfalle, aironi, foglie, aquile, canne selvatiche e, da alcuni anni, anche da inquietanti figure antropomorfe, nate quasi per caso dalla sua immaginazione. “Iniziando a lavorare sulla carta ho cominciato a intravedere nei segni che dipingevo alcune figure, e da lì le ho create, ho dato loro forma.” Le sue opere nascono, spesso, proprio da un’immagine, da un colore, da una sensazione, oltre che da un bisogno interiore, inconscio di rappresentare ciò che percepisce, ciò che vive.

Per questo anche l’ambiente nel quale si nasce e si cresce risulta determinante. Dall’attaccamento ai luoghi naturali, come le rive del Po, nel quale lei stessa raccoglie le erbe e le canne per le sue opere, all’ambiente urbano ferrarese, lento fino all’indolenza, al tempo stesso fragile e misterioso. Questo senso d’incanto e d’inquietudine tipico di Ferrara lo ritroviamo in Daniela, e nel fascino dei suoi quadri. Così anche la lentezza di una città di provincia è tratto fondamentale di una pittura che esige prima, nella genesi, pazienza, attesa e ricerca, e poi, nella fruizione, un approccio meditativo e riflessivo.

La stessa locazione del suo laboratorio non è priva d’interesse, in quanto situata tra il locale La Cambusa e una piccola chiesetta, un oratorio costruito nel ‘700 e oggi, seppur non ancora sconsacrato, ridotto a magazzino. Qui, tra sacro e profano, tutto sembra ancora possibile.

Un’immagine, in particolare, risulta pregna di significati per Daniela: quella della farfalla. Le grandi farfalle riprodotte nelle sue opere trasmettono immediatamente un senso di leggerezza, dando l’impressione di percepirla come se fosse reale, come se potesse da un momento all’altro librarsi in volo. È, quindi, simbolo di libertà, di metamorfosi, di trasformazione, ma anche di altro, in quanto rappresenta anche “la paura della perdita, della sparizione, soprattutto in questo mondo nel quale quasi non se ne vedono più.” Fu Pier Paolo Pasolini, nel 1975, pochi mesi prima di essere ucciso, a scrivere il famoso Il vuoto del potere in Italia o L’articolo delle lucciole nel quale parlava del “fulmineo e folgorante” fenomeno della sparizione delle lucciole nei primi anni Sessanta, come inizio simbolico della tragica mutazione antropologica del popolo italiano. Venerdì 7 giugno Daniela ha presentato a Cento la sua mostra Le farfalle ci sono ancora?, e chissà se a qualcuno sono venute in mente le parole di Pasolini, e se avrà trovato conforto nella magica bellezza rappresentata sulle grandi tele.

1 Commento

  1. Deserri Gianni scrive:

    Sono stato uno degli insegnanti di Daniela e noto con piacere che stà sviluppando la sua creatività e sensibilità con risultati molto proficui !!!

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