“Mo mi sistemo, ma se non faccio un film su questo posto
sono uno scemo”.

Più o meno con queste parole inizia questa storia di Massimo Alì Mohammad, alla ricerca di una casa dopo aver scoperto che quella in cui si era inizialmente trasferito aveva l’amianto. Siamo a fine 2009, e Alì, volendo una città che fosse completamente diversa dalla metropoli in cui è nato e vissuto fino ad allora – “l’anarchica ed incasinata Napoli” – vede proprio in Ferrara qualcosa di più piccolo, più raccolto, più zen. Insomma, “una di quelle città in cui puoi andare a comprare il pane in pigiama”, direbbe lui. È in una di queste vie che scorge di colpo un’insegna: Mignon.

Da qui l’idea di Alì di fare un documentario su questo famoso luogo ferrarese, di cui in realtà pochissimi sanno. Sì, proprio lui, lo storico cinema a luci rosse di via Porta San Pietro 18. Sì, proprio quello dentro la chiesa sconsacrata in età napoleonica, aperto 365 giorni l’anno – Natale compreso – e ultimo baluardo cittadino del cinema porno “come una volta”. Nessuno aveva mai fatto un film su questo posto? No, nessuno. Assurdo. Già.

Mignon come eccitazione e malinconia.
Mignon come sacro e profano.
Mignon come Ferrara.

Mi trovo con Alì prima della proiezione del suo film e sembra volermi parlare di tutt’altro. Mi racconta della sua infanzia, dei libri che gli hanno cambiato la vita, di Philip K. Dick e di quando riscriveva i film, subito dopo averli visti, per non dimenticarli. Mi parla del Giappone che lo affascina da sempre – sin dai cartoni dell’infanzia – proprio per quella sua contraddizione vivente, continuamente in bilico tra antico e moderno, per quella concezione della vita tra sacrificio e proibito. Mi parla poi di “ritmo pakistano” e io non capisco. Così lui mi spiega essere il dono più bello che il padre gli ha tramandato, quella propulsione tipicamente orientale all’osservare, stare all’aria aperta e contemplare. L’imparare ad amare le cose semplici.

Così ciò che posso dirvi su Mignon lo ricavo da quel che ho vissuto dalla terza fila, a sinistra. Il cinema Boldini pieno di gente dentro e fuori, tanto da dover fare una replica. Alì emozionato per essere riuscito a riunire più di 600 persone in un cinema, ricevendo commenti su commenti, applausi su applausi. E anche risate, tante risate, sane e liberatorie.

Foto di Valerio Spisani

Mignon è un viaggio alla scoperta di che cosa si nasconda dietro un cinema di quart’ordine. Nulla di particolare dunque, se, al contempo, non fosse anche un insieme toccante di ricordi e di racconti legati a Ferrara, dell’evoluzione storica vista con gli occhi dei gestori che si sono avvicendati, di storie sui cinema di periferia, molti dei quali ormai scomparsi – come il Diana, il Ristori o l’Alexander – e di quelli che potrebbero presto scomparire con la conversione al digitale. C’è una sorta di velata malinconia nel parlare di quest’altra parte di Ferrara, che si estende a tal punto da toccare anche la quotidianità dei personaggi del Mignon, le storie del cassiere e dei proiezionisti, i racconti di chi frequenta il cinema o di chi lo ha vissuto in passato. Ed è in tutto questo che ritrovo ciò che prima mi aveva raccontato Alì, il suo ritmo pakistano che si unisce all’amore per il cinema – tutto il cinema, di primo o di quarto ordine che sia – e lo ritrovo stupefatta in ogni dettaglio, in ogni scelta di regia.

Ciò che più emoziona è proprio la religiosità dei piccoli gesti che compongono questo documentario. La cura per le pellicole e il dispiacere nel tagliarne pezzi quando si rompono sapendo che andranno persi per sempre. La ritualità della giornata scandita dalle varie proiezioni, il ritorno a casa solo a notte fonda e il difficile equilibrio tra lavoro e famiglia. L’inaspettata umanità nei racconti degli intervistati. Una dedizione mai scontata, mai. Protagonisti indiscussi non sono i film, che sono il simpatico sottofondo della storia, ma il cassiere, i proiezionisti e le storie degli habitué, tra cui anche Alì che ironicamente si riprende poiché frequentatore del luogo.

Una religiosità che riprende il Mignon come se fosse una chiesa – “perché rimane una chiesa”, come ricorda il cassiere – che accoglie tutti i diversi, senza pregiudizi o restrizioni, e di cui proprio lui, come un confessore, ne custodisce senza malizia tutte le storie e i personaggi.

Mignon parla di una parte di città di cui pochi sanno e che molti detestano senza conoscere. Mignon fa anche divertire esaltando l’ambivalenza, il contrasto, il gioco del chissà cosa c’è oltre quella porta. Mignon diventa una scusa per parlare (anche) d’altro.

Chi cerca solamente lo spirito godereccio, troverà anche un lato più mesto, quasi dimesso. Chi si aspetta di vedere scene erotiche, oltre quella porta troverà un luogo la cui funzione sociale è disarmante. Mignon è una dedica d’amore al cinema e soprattutto alle persone che vivono e lavorano affinché ci siano ancora luoghi come questi. La più grande preoccupazione di Alì, prima della proiezione, era proprio che non piacesse a chi ci lavora al Mignon, che lo sentissero troppo lontano o falso.

Ma una volta usciti dalla sala ti viene solo voglia di passare, entrare e salutarli, Michele Franco e Nello che lavorano per il Mignon.

4 Commenti

  1. elena bertelli scrive:

    “una dedizione mai scontata” è quella che leggo anche tra queste righe e vedo sfogliando le pagine di questo nuovo Magazine. In bocca al lupo!

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